In una fase di stanca del multipolarismo, quando i multipolaristi d’Italia battono in ritirata, nascono iniziative culturali di più ampio respiro per raccontare – sine ira et studio ma anche senza sudditanze -, ciò che succede là fuori. Ecco Kim Jong Un parla italiano
Un Santo Stefano in salsa coreana, quello di ieri, che ha visto finalmente nascere, sulla popolare piattaforma russa di blogging Dzen il progetto Kim Jong Un parla italiano (https://dzen.ru/kimjongunparlaitaliano), dopo varie peripezie tecniche e organizzative: si tratta di uno spazio dedicato esclusivamente agli scritti e discorsi del Presidente degli Affari di Stato della RPDC tradotti in italiano direttamente dalle fonti coreane. Ispirato al vecchio e purtroppo defunto sito multilingue di Muammar al-Gheddafi (Gheddafi parla…) e legato ai circuiti dell’Associazione di amicizia e solidarietà Italia-RPDC, Kim Jong Un parla italiano si pone l’obiettivo non solo di far conoscere al pubblico del nostro Paese le posizioni, le idee e la visione del dirigente supremo della Repubblica Popolare Democratica di Corea, ma anche di fornire un orientamento a quanti, disorientati, spaventati o impauriti dalle difficoltà e da certi rovesci subiti dalla causa, cara a molti, del multipolarismo (ultimo in ordine di tempo la caduta di Assad e della Siria baathista), cercano un’iniezione di fiducia e coraggio, una bussola per l’avanzata e un sicuro baluardo di ispirazione per proseguire la lotta.
Gli eventi che si susseguono in Medio Oriente da ormai un anno hanno posto urgentemente all’ordine del giorno, con una rapidità inaspettata anche a chi scrive, lo studio e l’adozione dei principi fondamentali e universali della politica e della filosofia di Pyongyang (“Juche”): l’uomo come centro, padrone e decisore di tutto in quanto essere sociale potenzialmente dotato di indipendenza, creatività e coscienza; le masse popolari come forza motrice della storia dell’umanità; l’indipendenza in politica, l’autosufficienza in economia e l’autonomia nella difesa nazionale come cardini fondamentali della rivoluzione e dell’edificazione dello Stato e della società. Questo sia per i popoli in lotta per l’indipendenza e la sovranità, sia per i Paesi che combattono per difendere le conquiste delle proprie rivoluzioni, la propria indipendenza, la propria sovranità e il proprio carattere nazionale dalle mire asserventi e omologatrici dell’Occidente e in particolar modo degli Stati Uniti.
Il recente inasprimento, da parte della Corea del Nord, delle leggi contro l’infiltrazione della cultura imperialista, che al pubblico occidentale medio possono sembrare espressione di “totalitarismo dittatoriale”, serve in realtà proprio a evitare in partenza quei processi di disgregazione, corruzione, decadimento e destabilizzazione che hanno sempre aperto la via alla sovversione e all’eversione dei Paesi esterni alla sfera del Washington Consensus: si è sempre visto come, dall’Est Europa alla Libia e se vogliamo pure all’Ucraina, le strategie di regime change sono sempre state precedute dall’infiltrazione culturale, dalla promozione di un sentire generale comune composto da venerazione, sudditanza, invidia e paura degli Stati Uniti e dell’American lifestyle per spingere quei popoli a ribellarsi ai loro governi per “avvicinarsi quanto più possibile” allo stile di vita americano. Beni di consumo, film, musica, arte, gergo, moda: tutto questo, nei piani ormai di pubblico dominio a firma CIA sin dai tempi di Allen Dulles, doveva e deve servire per “americanizzare” popoli e nazioni e spingerli nell’orbita di Washington. La Corea del Nord ha capito tutto questo e vi ha contrapposto la propria “offensiva rivoluzionaria” (si legga il discorso di Kim Jong Un del 25 febbraio 2014) imperniata sui valori del collettivismo, della dedizione alla società, alla patria e alla famiglia, dell’altruismo e dell’amor proprio, dell’emulazione anziché competizione individualistica, dell’orgoglio delle proprie cose anziché la servile imitazione e la dipendenza dagli altri, l’unità unanime anziché la legge della giungla, l’amore per il lavoro anziché l’indolenza e il parassitismo, l’uguaglianza anziché la discriminazione, la moralità anziché la dissolutezza, il rispetto per i predecessori e la propria storia anziché la cancel culture. Questo e altro il progetto di Kim Jong Un parla italiano vuol far conoscere ai nostri connazionali: non la mera adulazione o un tentativo di imitazione, ma la rottura frontale della cappa di censura e unilateralismo affinché le campane che si possano udire per farsi un’idea critica tornino a essere due e non solo una.