La politica borbonica durante l’occupazione napoleonica della parte continentale del Regno di Napoli fu contrassegnata da crescenti tensioni tra la corte (trasferitasi a Palermo all’inizio del 1806), il baronaggio e la presenza inglese. Le consistenti truppe britanniche sbarcate nell’isola all’indomani della vittoria francese contro la terza coalizione, effettuarono dal 1809 ben mirati raid lungo le sue coste e alimentarono una costante guerriglia in Calabria. Questi fatti illusero la corte di poter ripetere l’impresa del 1799, quando fu abbattuta la Repubblica napoletana, continuando così a circondarsi di ministri e consiglieri solamente napoletani.
Tale atteggiamento suscitò il malcontento del baronaggio siciliano, influenzato dalle idee illuministiche e dal modello contrattualistico britannico. L’aspirazione a una società fondata sull’eguaglianza giuridica di tutti i cittadini e sulla libertà di comprare e usufruire dei beni personali si faceva strada in questo caso non tra il ceto “borghese” ma fra i gruppi più sensibili dell’aristocrazia siciliana. Su queste basi la vecchia tradizione baronale veniva trasformandosi e ampliando in una moderna concezione “liberale”. L’ostilità nei confronti della corte crebbe di fronte alla richiesta, formulata nel 1810 dal ministro Luigi de’ Medici, di un donativo di 350.000 once, il quale non prevedeva le consuete esenzioni per la nobiltà. I nobili siculi fecero propria una controproposta dell’economista Paolo Balsamo, il quale aderiva al principio della proporzionalità dell’imposta ma riduceva il prelievo a 150.000 once.
La corte ruppe gli indugi ed emendò tre decreti nel febbraio 1811 per la confisca dei beni ecclesiastici e demaniali e l’imposizione di una tassa dell’1 per cento su ogni forma di transazione. Alle immediate proteste del baronaggio si rispose il 19- 20 luglio con l’arresto di cinque capi dell’opposizione nobiliare.
Lord William Bentinck, il ministro plenipotenziario inglese di vedute liberali, si schierò con l’opposizione e il suo intervento, dopo essersi assicurato l’appoggio del suo governo, rovesciò i preesistenti rapporti di forza. I cinque baroni ribelli furono liberati dal confino e alcuni di loro andarono a formare il nuovo ministero.
Maturò in quei mesi, sotto la spinta di Bentinck e la suggestione della Costituzione votata a Cadice dalle cortes spagnole il 19 marzo, l’iniziativa di alcuni esponenti del gruppo aristocratico liberale di presentare all’approvazione del Parlamento straordinario previsto per quell’anno un progetto di Costituzione, ispirato agli ordinamenti britannici.
L’attività del Parlamento straordinario si divise in due fasi: nella prima (18 giugno-19 luglio 1812) furono discusse e approvate le “basi” del testo; nella seconda (20 luglio-3 novembre) si preparò e fu approvato il documento costituzionale. Ricevuto l’assenso del Principe vicario, la Costituzione siciliana venne pubblicata il 25 maggio 1813 e nel luglio di quell’anno si riunì il primo Parlamento eletto secondo le nuove regole. La regina Maria Carolina d’Asburgo aveva espresso i suoi dissapori nei confronti dei britannici, condividendo opinioni positive nei confronti della flotta russa e svedese. Ella colse il tentativo britannico di creare un protettorato e sondare un tentativo di annessione della grande isola [1], andò in esilio verso la via di Vienna e il re conferì nel gennaio 1812 al principe ereditario Francesco (I) il titolo di alter ego.
Si prevedevano due Camere: una in cui sedevano a titolo ereditario tutti i membri del vecchio braccio baronale oltre a quelli dell’ecclesiastico e una bassa elettiva, con soglie minime di censo per l’elettorato sia passivo che attivo. I primi 12 articoli della Costituzione proclamavano la religione cristiano – cattolica come quella di Stato e distinguevano i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Si dichiarava l’illiceità di ogni arresto arbitrario e di ogni restrizione alla libertà dei cittadini non irrogata dai magistrati ordinari e si disponeva all’art. II: «…che non vi saranno più feudi, e tutte le terre si possederanno in Sicilia come in allodii, conservando però nelle rispettive famiglie l’ordine di successione, che attualmente si gode».
I baroni rinunciarono alla giurisdizione e agli altri privilegi onorifici e utili ad essa legati, tutte realtà difese nel secolo precedente ma si vedevano in cambio riconoscere la piena proprietà di tutti i beni feudali, compresi quelli su cui vigevano per semplice consuetudine gli usi civici. Erano salvaguardati per una quarta parte della proprietà nobiliare anche i fedecommessi.
Altri articoli della Costituzione siciliana del 1812 si distinguevano sorprendentemente per il loro carattere quasi democratico. Tali erano le norme contenute nel decreto per la libertà della stampa e alcune di quelle comprese sotto il titolo Libertà, diritti e doveri del cittadino, come a esempio quella recitante: «Ogni cittadino siciliano avrà il diritto di resistenza contro qualunque persona, che senza essere autorizzata dalla legge volesse usargli violenza o con la forza o con le minacce, o volesse procedere colla supposta personale autorità».
Il conflitto tra lo schieramento aristocratico e quello demaniale, che chiedeva un allargamento della rappresentanza popolare – riprendendo le idee dei circoli democratici formatesi nel 1794 – si approfondì nel primo Parlamento eletto nel 1813, secondo le nuove regole e nella pratica portò alla paralisi politica. Le elezioni legislative del 1814 furono viziate da pressioni d’ogni genere sui votanti e brogli elettorali. Il 20 ottobre 1814 il nuovo Parlamento si aprì ma intanto il quadro politico europeo era profondamente cambiato: Napoleone era stato sonoramente sconfitto in Russia, Spagna e Germania e aveva abdicato. Il re era impaziente di tornare a Napoli, anche se Murat da Napoli aveva già trovato un flebile accordo con Inghilterra e Austria per rimanere. Dopo la sua tragica avventura per unificare l’Italia risalendo la penisola, conclusasi con l’esecuzione a Pizzo Calabro, Ferdinando poté tornare il 9 giugno 1815.
Il sovrano da parte sua si impegnò – con un articolo segreto del trattato del 12 giugno 1815 con l’Austria – a non apportare alcuna modifica costituzionale. Con il decreto emanato da Caserta l’8 dicembre Ferdinando stabilì che «tutti i nostri reali domini al di qua e al di là del Faro costituiranno il Regno delle Due Sicilie». Così l’8 dicembre del 1816 il sovrano “restaurato” non era più Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia, ma Ferdinando I delle Due Sicilie. Egli emanò l’11 dicembre del 1816 un secondo decreto con il quale sosteneva di «confermare i privilegi concessi da noi e dai sovrani nostri augusti predecessori ai nostri carissimi siciliani, e combinare insieme la piena osservanza di tali privilegi con l’unità delle istituzioni politiche che debbono formare il diritto pubblico del nostro Regno delle Due Sicilie». [2]
I dodici articoli del decreto stabilivano che i siciliani avrebbero ricoperto le grandi cariche del regno in proporzione della popolazione dell’isola; che avrebbero avuto tutte le cariche e gli uffici pubblici civili ed ecclesiastici dell’isola; che l’abolizione della feudalità sarebbe stata mantenuta in Sicilia così come nella parte peninsulare del regno; che le cause dei siciliani avrebbero continuato ad essere giudicate nei tribunali isolani; che il governo avrebbe avuto sede presso il re e questi avrebbe nominato un luogotenente a Napoli in caso di residenza in Sicilia o un principe reale o un personaggio illustre che avrebbe ricoperto anche la carica di ministro. Malgrado la concessione dei vantaggi comunicati nel decreto, molti dei quali rimasero senza stupor nessuno lettera morta, i siciliani nutrirono un profondo malcontento. [2]
Per chi abbia letto i miei precedenti articoli sulle rivoluzioni corsa, sarda e la Repubblica Cisalpina, è interessante cogliere il filo del “costituzionalismo” isolano rapportato o in conflitto con un “repubblicanesimo” continentale. Senza stare a filosofeggiare sulle qualità dei popoli di terra e di mare, l’Inghilterra ha sempre avuto il vantaggio delle sue navi e un suo disinteresse in mantenere possedimenti sul continente europeo, in favore di vari porti e isole nel Mar Mediterraneo. Il principale interesse britannico di commerce building nel XVIII secolo, piuttosto che del successivo empire building, si incontrò sempre con la ricerca di autonomia di comunità a sé stanti. L’esportazione del modello repubblicano da parte della Francia era dettata sia da ragioni ideologiche sia dalla necessità di uniformare i sistemi politici di paesi necessari alla difendibilità dei suoi confini, allontanando il più possibile Austria, Russia e Regno Unito.
Nonostante la sua breve vita, il moto costituzionale del 1812-14 rappresenta, a giudizio dei maggiori storici della Sicilia, il momento originario del Risorgimento isolano. Le istanze autonomiste si sarebbero trasformate in indipendentiste nel corso delle insorgenze del 1820-1821 e del 1848-49, per poi finalmente sussumere nel più grande fenomeno del Risorgimento italiano, manifestatosi dal felice incontro tra i garibaldini e i proprietari terrieri siciliani a Selimi nel 1860, dopo la traversata del Mar Tirreno e lo sbarco delle Camicie rosse a Marsala.
Bibliografia
Testo tratto e rielaborato principalmente dal saggio La Costituzione siciliana del 1812 di Carlo Capra, Gli italiani prima dell’Italia. Un lungo Settecento, dalla fine della Controriforma a Napoleone, Roma, Carocci Editore, 2019, pp. 356-358.
[1] Contenuto delle slides dell’insegnamento di Storia dell’Italia preunitaria, presieduto da Rosa Maria Delli Quadri per il corso di laurea in Scienze Storiche, Università degli Studi di Firenze, anno accademico 2023-2024.
[2] Tesi di dottorato di Grazia Scuderi, relatore Giuseppe Astuto, I poteri locali in Sicilia dalla costituzione del 1812 alla costituzione del 1848, Catania, Università degli Studi di Catania, 2020, pp. 9-11, pdf reperibile su Google Schoolar.