Venerdì scorso l’insediamento della nuova Console generale a Firenze, Yin Qi. Il punto sui rapporti, economici e non solo, tra Italia e Cina dopo la via della Seta.
Il Tazebao – Se è vero, come è vero, che esiste la “lunga durata”, la persistenza dei fattori socio-culturali oltre la grande storia, allora la fuoriuscita dalla via della Seta è stata solo un momento di passaggio, superato agilmente grazie al lavoro della diplomazia e alle relazioni di amicizia e di conoscenza reciproca tra italiani e cinesi, che affondano nella storia. Ne è stata una riprova la festa per il Capodanno cinese – il 2025 è l’anno del serpente – organizzata dal Consolato Generale della Repubblica Popolare Cinese a Firenze al St. Regis.
Ad accogliere gli ospiti, nella cornice dell’hotel che si affaccia sulla splendida piazza Ognissanti, i libri curati dalla Anteo Edizioni, casa editrice specializzata sugli esteri. È intervenuta anche la sindaca di Firenze, Sara Funaro, che ha ricordato il legame tra la città gigliata e il popolo cinese. Presenti anche le autorità cittadine, nonché alcuni rappresentanti delle categorie economiche e del mondo dell’informazione.
In quell’occasione di festa e di amicizia, si è insediata ufficialmente la nuova console generale, Yin Qi. Folta la rappresentanza da Prato, cuore produttivo manifatturiero della Toscana, dove le imprese cinesi svolgono un ruolo prezioso nella filiera della moda, al netto di casi di illegalità, un ruolo troppo spesso misconosciuto, a riprova dell’interdipendenza e della complementarità dei due sistemi economici. Analizzando proprio i dati dell’export italiano verso la Cina, arrivato nel 2023 a circa 16 miliardi (meno nel 2024, anche a causa della crisi mediorientale), si scopre che la fanno da padroni la moda, tessile in primis, e il farmaceutico.
Restando ai soli dati economici, l’interscambio tra Italia e Cina rimane molto alto, oltre i 60 miliardi (quello con gli States si attesta sui circa 80 miliardi), dopo il picco al rialzo (oltre 70 miliardi) per effetto della via della Seta. Ad ogni modo, come ribadito anche in occasione del VII Business Forum Italia Cina, ci sono margini per aumentare la quota di export italiano verso la Cina: 2,4 miliardi di euro per i beni di consumo e altri 2 per quelli strumentali, ha stimato il Centro Studi di Confindustria. Un mercato di riferimento, nonostante le complessità logistiche, per un’Italia che cerca nuovi sbocchi commerciali, in un clima di economia sempre meno globale e sempre più frammentata.
Un paese – la Cina – o, meglio, uno “stato-civilizzazione” che ha affrontato dei momenti di grande crisi e sconvolgimento, dalle guerre dell’oppio fino alla massima dissoluzione interna, tra l’invasione straniera e il crollo economico, ma che ha saputo risollevarsi, costruire una propria agenda globale che nasce dall’incrocio tra 5 mila anni di tradizione, l’alta innovazione tecnologica, la fiducia tra stato-partito e masse popolari. E l’Italia non può farne a meno.