A 29 anni da quella tragica notte la ferita è ancora aperta e forse solo il ritorno del Nagorno Karabakh sotto l’Azerbaigian può sanarla.
Il riconoscimento delle gravi violazioni dei diritti umani compiute a Khojali potrebbe portare ad una pace più duratura nella regione.
Era la notte tra il 25 e il 26 febbraio del 1992. Poco dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica era nata l’Oblast’ Autonoma del Nagorno Karabakh, riaprendo le rivendicazioni, sopite fino ad allora ma che affondavano nelle scelte di quasi un secolo prima, per quel territorio determinante per gli equilibri regionali e per il controllo del Caucaso come dell’Asia Centrale. La città di Khojali è stata teatro quella notte di quello che a tutti gli effetti è stato un genocidio, uno degli episodi più tragici del conflitto tra Armenia e Azerbaigian.
Come ben nota il giornalista Leonardo Tirabassi su Il Sussidiario in una sua attenta ricostruzione, questo conflitto fu del tutto simile ad altri consumatesi dopo la fine della guerra fredda. Scoppia, infatti, in un’area marginale dell’ex impero, russo in questo caso, dove non era chiaro l’equilibrio delle forze in campo, un’area quella del Nagorno con una geografia etnico-religiosa complessa e quindi per sua natura foriera di conflitti e, da molti secoli, frontiera tra Europa e Asia. La guerra finì solo nel 1994 con l’accordo di Bishkek.
La scelta dell’Armenia di aggredire proprio la città di Khojali non fu casuale ma rispose ad un preciso disegno strategico. Essa è sita poco lontano da Khankendi e Agdam (la città fantasma nota al pubblico europeo per la sua squadra di calcio, il Qarabag) e possedeva un aeroporto in funzione. La popolazione era composta per la quasi totalità da azeri e turchi meshketi. Tanti motivi che la rendevano un crocevia prezioso per controllare tutto il Nagorno.
Il genocidio
Quella notte le forze armate dell’Armenia, miste a bande armate armene locali irregolari, con la partecipazione diretta del 366° reggimento di fanteria motorizzata dell’ex Unione Sovietica, dopo un periodo di assedio, irruppero nella città di Khojali massacrando militari e soprattutto civili azeri.
Il bilancio dei morti, ricostruito dall’Azerbaigian e contestato apertamente dall’Armenia, ammonta a 613 civili uccisi, di questi 63 bambini, 106 donne e 70 anziani, su una popolazione che allora era intorno alle 6-7mila persone. Le modalità con cui si sono compiute le violenze sono ancor più atroci di quanto possano raccontano i freddi numeri. Nel corso del massacro i corpi di 487 abitanti sono stati lacerati nei modi più spietati, alcuni bruciati vivi, decapitati, altri mutilati e altri scalpati. Altre 1.000 persone sono state ferite e 1.275 sono state prese in ostaggio.
Il trauma del genocidio (Xocalı soyqırımı per gli azeri) è ancora vivo e lacerante. È una delle dimostrazioni più evidenti che, in quella guerra, l’Azerbaigian fu aggredito e non aggressore. Come ogni genocidio, il ricordo del 25-26 febbraio ’92 perseguita tutt’ora coloro, pochi, che sono sopravvissuti allora alla violenza e, quando sfollati, ai rigori dell’inverno. I lutti non hanno risparmiato quasi nessuno. 8 famiglie sono state completamente distrutte, 25 bambini hanno perso entrambi i genitori e 130 bambini hanno perso uno dei genitori. 150 cittadini di Khojali figurano ancora come dispersi.
Da notare, inoltre, che ben prima del genocidio stesso erano state avviate azioni di sabotaggio e bombardamenti, con il duplice scopo di terrorizzare la popolazione azera e tagliare i collegamenti con le altre città della regione. Il genocidio è stato quindi l’epilogo tragico di un assedio iniziato mesi prima che aveva già prodotto conseguenze pesanti sulla popolazione.
L’inizio di un’azione di pulizia etnica
Xocalı soyqırımı è stato un atto brutale, cruento, animato dalla volontà di dimostrare la superiorità bellica dell’Armenia, ma anche scientifico, come ogni azione di pulizia etnica nella storia. Perché i massacri di civili non sono mai ciechi, mai casuali, mai frutto di errori. Il genocidio è stato la concretizzazione di una precisa volontà di svuotare degli azeri quel territorio favorendone l’annessione all’Armenia e quindi un’omogeneità culturale altrimenti impossibile. Anche per questo è un episodio, per quanto poco noto alle cronache, decisivo perché segna l’inizio di una escalation nel conflitto.
A partire dal genocidio di Khojali, infatti, l’Armenia ha avviato un’aggressione su larga scala contro l’Azerbaigian, fuori dalla regione del Nagorno-Karabakh dell’Azerbaigian, occupando militarmente il Nagorno Karabakh e 7 distretti circostanti, in totale il 20% del territorio dell’Azerbaigian. Quando iniziato a Khojali, dunque, è proseguito con identica crudeltà: durante l’occupazione armena, 30 mila persone sono state uccise, più di 50 mila sono rimaste ferite o rese disabili.
Non stupisce il persistere di un livore profondo nella popolazione azera, cementato dalla totale mancanza di colpevoli e, da parte dell’Armenia, di una qualunque forma di ammenda rispetto a questo terribile genocidio. Pur avendo la piena responsabilità per il genocidio di Khojaly, che è esplicitamente confermato da numerosi fatti, tra cui prove e documenti investigativi, ma anche testimonianze oculari, resoconti dei media internazionali e documenti di organizzazioni intergovernative e non governative, gli armeni non riconoscono il genocidio e riconducono le uccisioni al conflitto in corso, motivando l’attacco alla città con il bisogno di fermare il lancio di missili che partiva dalle batterie azere ed era diretto verso Khankendi. In più sostengono che la popolazione di Khojaly fosse stata avvisata prima dell’attacco e che fosse stato predisposto un corridoio umanitario per favorire l’uscita dei profughi. Sicuramente gli azeri avrebbe potuto prevederlo visto il lento avvicinamento alla città delle truppe armene iniziato mesi prima ma era difficile preventivare una violenza del genere.
Le reazioni internazionali
La comunità internazionale spesso è intervenuta sui fatti di Khojaly riuscendo lentamente a far emergere la verità. Nella sentenza del 22 aprile 2010, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha formulato la seguente osservazione, che, pur non parlando apertamente di genocidio, non lascia dubbi sulla questione della qualificazione del reato e della conseguente responsabilità dello stesso:
“Sembra che le relazioni disponibili da fonti indipendenti indichino che al momento della cattura di Khojaly nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 1992 centinaia di civili di etnia azerbaigiana sarebbero stati uccisi, feriti o presi in ostaggio, durante il loro tentativo di fuggire dalla città catturata, da combattenti armeni che attaccavano la città”.
La Corte ha qualificato il comportamento di coloro che effettuano l’incursione come “atti di particolare gravità che possono equivalere a crimini di guerra o crimini contro l’umanità”.
Il genocidio di Khojaly e altri crimini contro l’umanità perpetrati dall’Armenia nel corso della sua aggressione militare contro la Repubblica dell’Azerbaigian costituiscono una grave violazione del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, in particolare le Convenzioni di Ginevra del 1949, la Convenzione sulla prevenzione e la punizione del Crimine di genocidio, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, la Convenzione sui diritti del fanciullo e la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
L’autore armeno Markar Melkonian menziona in particolare il ruolo dei combattenti dei due distaccamenti militari armeni “Arabo” e “Aramo” e descrive dettagliatamente come hanno massacrato gli abitanti pacifici di Khojaly. Così, come da lui riferito, alcuni abitanti della città erano quasi riusciti a mettersi in salvo, dopo essere fuggiti per quasi sei miglia, quando “i soldati [armeni] li inseguirono”. I soldati, nelle sue parole, “sguainarono i coltelli che si erano portati sui fianchi per così tanto tempo e iniziarono a pugnalare”.
L’ex presidente della Repubblica di Armenia Serzh Sargsyan è stato il comandante in capo delle forze militari illegali nei territori dell’Azerbaigian occupati al momento del genocidio di Khojaly nel febbraio 1992. I seguenti pensieri di Sargsyan, riportati nel volume “Black Garden” del giornalista Thomas de Waal, non lasciano dubbi sulla questione dei veri autori del crimine a Khojaly:
“Prima di Khojaly, gli azerbaigiani pensavano di scherzare con noi, pensavano che gli armeni non avrebbero potuto alzare una mano contro la popolazione civile. Siamo stati in grado di rompere quello [stereotipo]. Questo è quello che è successo”.
Il genocidio di Khojaly è riconosciuto e commemorato da atti parlamentari adottati in numerosi paesi. Finora, gli organi legislativi di Bosnia ed Erzegovina, Colombia, Repubblica Ceca, Honduras, Giordania, Messico, Pakistan, Panama, Perù, Sudan, Gibuti, Guatemala, Scozia e diciannove Stati degli Stati Uniti d’America hanno adottato risoluzioni parlamentari.
La Repubblica di Armenia ha continuato i suoi crimini contro l’umanità prendendo di mira deliberatamente i civili azerbaigiani anche durante la seconda guerra del Karabakh nel 2020. Attaccando la popolazione civile e le infrastrutture di popolose città azerbaigiane come Ganja, Barda e Tartar, situate lontano dal campo di battaglia, l’Armenia ha commesso nuovamente nel 2020 gli stessi crimini di guerra del 1992 e, di fatto, questa volta ha utilizzato armi più letali, comprese bombe a grappolo e sistemi missilistici per causare maggiori vittime tra i civili.
Secondo l’Ufficio del Procuratore Generale della Repubblica dell’Azerbaigian, a seguito di attacchi con missili e artiglieria pesante più di 100 civili, tra cui 12 bambini e 27 donne, sono rimasti uccisi, 423 civili sono rimasti feriti. A seguito di questi attacchi sono stati distrutti più di 5000 case residenziali ed edifici multi-appartamento, 76 strutture sociali, comprese scuole, ospedali e asili nido, 24 strutture di produzione, 218 strutture commerciali, 51 strutture di ristorazione pubblica, 41 edifici amministrativi e 19 strutture religiose. Sia il genocidio di Khojaly del 1992 che il bombardamento della popolazione pacifica nel 2020 rappresentano una chiara prova della politica deliberata e degli atti di violenza sistematica da parte delle autorità della Repubblica di Armenia contro i civili azerbaigiani.
Durante la cosiddetta Guerra Patriottica di 44 giorni iniziata il 27 settembre scorso – non sono certo mancate avvisaglie nei mesi e negli anni precedenti, come per altro testimoniato da un attento osservatore come Andrea Marcigliano (intervenuto anche al Tazebao) su Nodo di Gordio – quando le forze armate dell’Armenia hanno sottoposto gli insediamenti e le posizioni militari dell’Azerbaigian a bombardamenti da più direzioni, utilizzando armi di grosso calibro, mortai e installazioni di artiglieria di vario calibro, l’Azerbaigian ha liberato i suoi territori, sotto occupazione militare da parte dell’Armenia da quasi 30 anni.
La strada per la pace
La liberazione delle terre azerbaigiane apre opportunità di pace, dialogo e cooperazione nella regione prima impensabili. Uno dei fattori ostativi al raggiungimento della pace durevole e della riconciliazione tra Armenia e Azerbaigian, tuttavia, è l’impunità di cui godono ancora gli autori dei crimini contro la popolazione civile. Pertanto, l’accertamento della verità riguardo alle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani commesse durante i conflitti, a cominciare dal genocidio di Khojaly, la fornitura di riparazioni adeguate ed efficaci alle vittime e la necessità di azioni istituzionali per prevenire il ripetersi di tali violazioni, sono tutti atti aggiuntivi necessari a un vero processo di riavvicinamento e pacifica convivenza tra le due nazioni.
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