In margine alla visita in Italia di H.M. King Charles III

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Re Carlo è tornato in Italia per la prima volta da Re dell’Anglosfera. Una visita ricca di significato, culminata con la cerimonia all’Altare della Patria e con la visita a Ravenna.

Il Tazebao – Un Re Carlo che arriva nel bel Paese è un archetipo italiano, andando a ritroso dalla ballata di De André («Re Carlo tornava dalla guerra, lo accoglie la sua terra cingendolo d’allor…»), per risalire alla notte di Natale dell’800 d.C., in cui Carlo re de’ Franchi, a Roma fu incoronato imperatore da Papa Leone III, passando per ben 3 Carli Emanuele di Savoia, Carlo III di Borbone Re di Napoli e Sicilia, Carlo V d’Asburgo, Carlo d’Angiò.

Dunque dopo numerose volte da principe del Galles, ecco il solicel di una fresca primavera italica riveder, da Re incanutito, un elegante Carlo ben appoggiato alle tre colonne del lapidario romano (III), che gli assicurano un trono nella Storia, al di là della Corte di San Giacomo e del Commonwealth: è il trono dell’Anglosfera, che − in tempi di tracotanza daziaria d’oltre Atlantico − si riallibra pienamente in Europa, in quella verde Inghilterra vittoriosa, after Brexit, sull’algida Unione Europea ben ferma a tenere i tappini ancorati alle bottiglie di plastica, prodromo di un riarmo tanto costoso quanto incautamente sbandierato, ove necessario, ma che di Londra non può fare a meno.

Una Londra certo non immune dalle criticità della deriva multietnica europea ma dove la Corona svolge un ruolo insurrogabile di coesione sociale simbolica e di pernio identitario della ruota democratica rappresentativa.

Se, ai fugaci bagni di folla rapita dal fascino mistico e fiabesco della regalità, hanno fatto eco le ripetute ovazioni del Parlamento italiano alle “Loro Maestà britanniche”, per coerenza simbolica e carità di Storia patria, magari sarebbe stato opportuno annoverare – tra i 150 invitati alla cena di gala del Quirinale – pure Emanuele Filiberto di Savoia, che è stato 31 anni in esilio dalla nascita per responsabilità politiche ascritte al Re suo bisnonno e discendente diretto del Pater Patriae, sotto la cui statua a cavallo, il Re inglese ha deposto una corona d’alloro al Milite ignoto ad Altare della Patria. Come pure, tra i suddetti invitati, non avrebbero sfigurato i rappresentanti delle dinastie pre-unitarie, dai Borbone Due Sicilie ai Borbone Parma, dai Medici agli Asburgo, etc.: questo per testimoniare − a monte della diuturna narrazione riduttivamente imprenditoriale del Made in Italy − il contributo storico alla definizione identitaria della Nazione di corone italiane, oggi statualmente assorbite dalla corona turrita della Repubblica: la bellezza sabauda, tanto dei Corazzieri al Quirinale, quanto dei Lancieri di Montebello a cavallo a villa Doria-Pamphili, perpetua infatti, in modo autoevidente, il segno di questa Tradizione unitaria, che è fatto costitutivo non esaurito e preterito ma vitale ad effetti permanenti dello Stato italiano.

Peraltro, la conclusiva sosta ravennate di Sua Maestà britannica, assume valore nevralgico, non solo per la partecipazione, insieme al Capo dello Stato italiano, all’80° Anniversario della Liberazione di Ravenna ma anche, in termini di omaggio ai valori universali della Civiltà italiana, per il significato simbolico della visita alla basilica di San Vitale e alla tomba del sommo Poeta ancor esiliato da Firenze e determinante per la definizione identitaria dell’Occidente: proprio dall’alto del mosaico aureo, sotto le volte virescenti di San Vitale (VI sec. d.C.), l’iconica figura dell’Imperatore romano d’Oriente pare appunto presentarsi con le parole di Dante:

«Cesare fui e son Iustinïano

che, per voler del primo amor ch’i’ sento,

d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano»

(Paradiso VI, 10).

Lo straordinario mosaico di San Vitale a Ravenna (Il Tazebao, 2023)

Il che, in tempi di Gesetzesflut U.E. (e non solo), costituisce un imperativo etico per i Legislatori particolarmente attuale.

A Re Carlo, reduce ormai in Inghilterra, non “dalla guerra” ma dal caloroso congedo romagnolo dalla bellezza italiana, si addice dunque la chiusa della ballata di Fabrizio De André: «…lo accoglie la sua terra cingendolo d’allor. Al sol della calda primavera Lampeggia l’armatura del sire vincitor».

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