Il Tazebao – A Perugia si è raccolto quel che resta del dissenso. Non più l’onda tumultuosa – e forse troppo anarchica – di qualche anno fa, ma una traccia tenue, che cerca di riappropriarsi di un senso. Là dove c’era l’urgenza di scuotere, oggi c’è il tentativo di ritrovare una voce. Ed è giusto che qualcuno provi a suggerire spunti per rintracciarla.
Eppure, qualcosa stride. Mettiamolo in chiaro: ero lì, respirando un’energia giovane e vibrante, pulsante di una vitalità che non lascia spazio al disincanto. I ragazzi che mi hanno accompagnato parlano di storia recente e politica come si parla di qualcosa che si sente sotto la pelle, come un battito necessario. È una gioventù che non si rassegna al cinismo che svilisce la politica – parola ormai logorata – a semplice sporcizia. La conferenza voleva offrire strumenti, mappe, bussole. L’obiettivo esplicito era riassestarsi per risvegliare un gigante di nuovo addormentatosi, il dissenso.
La pandemia ha scardinato equilibri: ragazzi che fino a ieri ignoravano la cosa pubblica, percependola come qualcosa di distante e quasi minaccioso, hanno sentito la necessità di passare all’azione. Hanno scoperto, forse con sorpresa, che la politica è vita ed è ciò che distingue il cittadino dal suddito.
Ma va detto, c’è qualcosa che stona decisamente. L’incontro si apre con una dichiarazione esplicita: il Novecento è morto e sepolto, urge un pensiero nuovo, una teoria che scavalchi le vecchie categorie. Qualcuno sorride, sorrido anche io. Ma basta uno sguardo alla sala per notare l’incongruenza. Le sigle presenti non sono affatto post-ideologiche, né post-politiche, tantomeno meta-politiche. Sono sigle radicate, legate mani e piedi alla politica. Non c’è aria di superamento qui, ma di costruzione.
Queste associazioni vivono nel fare, nell’agire quotidiano. Non pensano a trascendere, ma a consolidare, mattone dopo mattone, un fortilizio di politica viva, tangibile. Un dominio che non appartiene al pensiero astratto, ma alla concretezza dell’azione.
Diciamo questo non per il gusto sterile di colpire, anzi: in politica, finché ci si espone, finché si costruisce, i contrasti sono con i rivali. I nemici? Quelli appartengono a un’altra categoria: sono coloro che alla politica hanno rinunciato. Ma di loro parleremo meglio alla fine.
L’elemento anagrafico è subito balzato agli occhi: i capelli bianchi, tipici frequentatori di questi appuntamenti, totalmente assenti. Eppure, è stato curioso notare come l’invito ad abbandonare l’ideologia provenisse dalla voce più matura in sala. I giovani, cioè il nuovo, avevano invece coordinate nitide: l’Italia e il Socialismo. Questo sembra essere il filo conduttore del mondo post-dissenso, quando le mobilitazioni nate dalla pandemia si sono spente, chi ha cercato di estendere a tutto una rabbia amorfa si è trovato davanti a un vicolo cieco. Chi ha allargato lo sguardo e compreso la necessità di un’idea – invece – respira ancora e si trovava lì, con noi, giunto dalla laboriosa Trieste.
Ma, con piena franchezza, il punto più fragile della conferenza è stato il richiamo a una “ricerca di un senso superiore” come mito mobilitante. Certo, la crisi oggi è anche spirituale, su questo non si discute. Tuttavia, limitarsi a tracciare una distinzione tra legge e giustizia è un esercizio troppo facile. La giustizia è un valore, ma i valori non si colgono nel vuoto: si interpretano attraverso l’idea, il grande assente di questo discorso.
Un esempio concreto? Prendiamo la libertà. Questo valore ha assunto significati diametralmente opposti a seconda della lente ideologica. Per una tale Rand, è il dinamismo dell’individuo che sprigiona il suo ego; per il georgiano Džugašvili, è la liberazione dalla paura del ricatto. Come lo stato debba garantirla? Non serve chiarirlo: le due visioni sono antitetiche. Ecco perché l’idea non è un accessorio, ma l’asse portante. Senza di essa, ogni valore rischia di svuotarsi.
Questo è il rischio intrinseco del dissenso, ed è stato il punto debole del sovranismo: l’idea è imprescindibile, non c’è scampo. Aggregare il malcontento è utile, ma è nefando non trasformarlo in qualcosa di strutturato. Schmitt lo diceva chiaramente: la politica si regge sulla distinzione tra amico e nemico. E allora, lo spunto con cui contribuire è questo: servono coordinate solide. Solide non vuol dire dogmatiche, ma bisogna avere il coraggio di scegliere un nome, un’identità, una categoria che necessariamente escluda un’altra. Lo ricorda bene il Matteo evangelista: non si possono servire due padroni.
Rinunciare al nemico equivale a diventarlo. Perché in quel rifiuto si abbandona il politico, e dunque ci si riduce a fare amministrazione, a vivere in quello sterile grigiore contro cui ci mobilitiamo. Ma oggi, a quel grigio opponiamo un colore, che non è solo il colore della politica, ma anche del Socialismo, perché dei due padroni il nemico non può che essere Mammona.