Un viaggio nel Padiglione Libanese (e non solo) alla Biennale dell’Architettura di Venezia.
La Biennale dell’Architettura di Venezia si interroga su un concetto riemerso prepotentemente dopo la pandemia: la convivenza, che si sperimenta nel nucleo elementare della famiglia ma che si cerca di mettere in pratica nei sistemi sociali più complessi con esiti spesso difformi. Su quali basi, su quali nuove basi essa debba fondarsi, quali spazi comuni ma anche quali spazi di vuoto e silenzio – come analizza l’architetto Hala Wardé nel suo percorso “A roof for Silence” nel Padiglione Libanese – e dunque quali canali di dialogo, chi è davvero centrale e rispetto a chi?
In questo processo che è urbanistico, architettonico ma sicuramente politico e dunque democratico è imprescindibile l’architetto, custode del “contratto spaziale”, un concetto cardine per il curatore della Biennale, l’architetto libanese Hashim Sarkis, che ha seguito, tra gli altri, i progetti del Municipio di Biblo e degli Alloggi dei Pescatori di Tiro. È proprio il libano il paese dove da sempre si sperimentano pratiche di convivenza spaziale ancorché religiosa con risultati spesso sorprendenti.
“In un contesto di divisioni politiche acutizzate e disuguaglianze economiche crescenti, chiediamo agli architetti di immaginare spazi in cui possiamo vivere generosamente insieme” ha dichiarato Sarkis.
A completare uno sguardo sul Paese dei Cedri contribuisce Francesco Candeloro che con il suo “Segni nel tempo, Beirut” (2012), esposto al Magazzino del Sale durante la mostra Between Space and Surface, che registra (tecnica aerografo industriale e taglio laser su plexiglas) i cambiamenti della città sovrapponendo e incrociando le immagini di mondi urbani che sembrano estranei ma che si sommano nella luce e nel colore. Un caleidoscopio sulle stratificazioni del tessuto urbano: la chiesa, gli archi arabeggianti, la nuova moschea di Piazza Martiri. L’opera di Candeloro ancor più suggestiva poiché molte di quelle architetture, felice sintesi degli stili mediterranei, della vecchia Beirut sono state irrimediabilmente distrutte o danneggiate il 4 agosto 2020.
English version
The Biennale of Architecture in Venice is questioning itself on a concept that has re-emerged strongly after the pandemic: coexistence, which is experienced in the elementary nucleus of the family, but which is tried to materialize in the more complex social systems that engender different consequences. On what foundations, on what new foundations should be based the coexistence, what common spaces but also what spaces of emptiness and silence – as the architect Hala Wardé analyzes in her path “A roof for Silence” in the Lebanese Pavilion – and therefore what channels of dialogue, who is central and with respect to whom?
In this process, which is urban, architectural but certainly political and therefore democratic, the architect has an essential role, the architect is the guardian of the “spatial contract”, a key concept for the curator of the Biennial, Lebanese architect Hashim Sarkis, who has overseen, among others, the projects for the Biblo Town Hall and the Fishermen’s Lodgings in Tyre. Lebanon is also the country where practices of spatial coexistence, even if religious, have always been experimented with often surprising results.
Completing a look at the Land of the Cedars is Francesco Candeloro with his “Signs in Time, Beirut” (2012), exhibited at the Magazzino del Sale during the exhibition Between Space and Surface, which records (industrial airbrush technique and laser cutting on Plexiglas) the changes in the city by superimposing and intersecting the images of urban worlds that seem unrelated, but which add up in light and color. A kaleidoscope on the stratifications of the urban fabric: the church, the arabesque arches, the new mosque in Piazza Martiri. Candeloro’s work is even more evocative because much of that architecture, a happy synthesis of Mediterranean styles, of old Beirut was irreparably destroyed or damaged on 4 August 2020.
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