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I sette a Gaza

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Nella sorgente del mito tragico c’è tanto per provare a capire l’insensatezza dell’oggi, l’infinita sequela di lutti.

«Grida la città deserta. (…) Tremo davanti al grave destino che s’annuncia. (…) Troppi sono i dolori della città sottomessa». Sono le parole del coro di donne ne I sette contro Tebe di Eschilo. La classicità è ancora fonte inesauribile, ché l’uomo è sempre uomo e i drammi sempre umani e identici ed Eschilo ha ancora un forte legame con il mito primigenio e brutale, ambientato a Tebe, la città dalle sette porte (ἑπτάπυλος), un’Atene oscura. Proferiscono questo lamento poco prima che si consumi la tragedia: il lutto supremo e insensato. Eteocle, ancora lucido nocchiero della città, sceglie i sette valorosi guerrieri da contrappore ai sette, già sicuri di vincere, al seguito del fratello Polinice. Tra questi, nella descrizione del messaggero, spicca Capaneo, la cui superbia «non ha nulla di umano»: finirà fulminato tentando di scalare le mura della città. A Eteocle tocca di sfidare Polinice, figlio come lui di Edipo, nel duello fratricida che darà la morte a entrambi. Oltre il mito, l’assedio rimane costante in tutte le guerre, moderne o antiche, in quelle di movimento, in quelle ad alto impiego di tecnologia. Nel continuo inseguirsi tra scudo e spada, corazza e proiettile, razzo e Iron Dome, c’è un momento in cui la stasi sostituisce il movimento e lo scontro diventa meno chirurgico e più efferato. Nel mito e nella storia, alla tracotanza dell’assediante, si contrappongono il senno e la pietà dell’assediato, che scopre risorse che non pensava di avere: è così nella cronaca di Erodiano dell’assedio di Aquileia che decreta la fine di Massimino il Trace. La comunità civica si stringe contro l’uomo solo che vuole gloria e sangue. C’è da sperare che non finisca come nel mito: «Con le mani fraterne si sono uccisi l’un l’altro», in una «mutua strage».

17 ottobre, ore 21:45

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