Una riflessione sul discorso di Orbán che apre a scenari multipolari e che è stato incredibilmente ignorato dai media occidentali.
Il 23 luglio, il presidente ungherese Viktor Orbán ha tenuto un discorso al campus dell’Università di Bálványo, nel contesto di un convegno romeno-ungherese che viene organizzato ogni anno dal 1990 in via informale per favorire l’incontro e lo scambio tra i politici dei due Paesi in questa località situata in Transilvania, terra storicamente contesa tra Romania e Ungheria.
Il discorso di Orbán è infatti iniziato non senza una nota polemica rivolta al Ministero degli Esteri di Bucarest, il quale gli aveva fatto pervenire un memorandum contenente le questioni da non trattare per non incorrere in eventuali incidenti diplomatici, nota a cui si è attenuto pur con qualche menzione polemica. La sua allocuzione si è piuttosto concentrata sull’analisi geopolitica della situazione attuale e particolarmente sul ruolo della Cina, di contro agli Stati Uniti e all’Europa in decadenza (anche morale, come dimostrano i suoi ripetuti attacchi alla “comunità LGBT”), svolgendo una ricostruzione storica estremamente particolareggiata e precisa pur nella sua sintesi.
Giungendo ai nostri giorni, Orbán cita l’espansione dei BRICS e della Nuova Via della Seta cinese come prova della tesi per cui il futuro verrà egemonizzato, da un punto di vista politico-economico, dall’Asia e dalla Cina stessa, in quanto economie emergenti e dinamiche che crescono molto più rapidamente di quelle occidentali.
Oltre a ciò, egli sottolinea che «la situazione in cui viviamo oggi è una situazione nella quale ci dirigiamo ogni giorno che passa verso un conflitto. La questione, la domanda da un milione di dollari, è di sapere se questo conflitto può essere evitato».
Non sarebbe effettivamente errato interpretare il discorso di Bálványo come un manifesto-sintesi della politica sin qui seguita da Orbán. Già finito nel mirino della UE, nel 2018, per la questione dei “diritti umani” e della “libertà di stampa”, nell’ultimo decennio il presidente ungherese ha definito e applicato una linea di crescente smarcamento dai centri di potere di Washington e Bruxelles, trovandosi spesso in opposizione anche frontale con costoro (soprattutto con l’UE) ma senza tuttavia neanche paventare l’uscita né dalla NATO né dall’Unione Europea. Aver comunque mantenuto la propria sovranità monetaria (l’Ungheria ha infatti mantenuto il proprio Fiorino) sicuramente le è stato d’aiuto.
Nel corso dell’anno passato, allorché è cominciata l’operazione militare speciale russa in Ucraina, l’Ungheria non ha mai aderito alla campagna di sanzioni e ostracismo verso la Russia ideata e attuata dall’Europa; pur avendo votato a favore le risoluzioni antirusse in sede ONU, Budapest ha sempre mantenuto aperti i canali politici, diplomatici e commerciali con la Federazione Russa, non eccedendo neppure nella “condanna dell’invasione russa”; sarebbe però certamente azzardato definire Orbán, come del resto il presidente serbo Vučić, un “filorusso”, giacché entrambi formano parte di una classe politica emersa dalla caduta del socialismo nei rispettivi paesi, spostatisi conseguentemente nella sfera d’influenza americana [1]. L’antipatia orbaniana verso l’attuale regime ucraino, inoltre, è dettata principalmente, se non unicamente, da questioni attinenti a rivendicazioni territoriali, giacché con Kiev vi è il contenzioso relativo alla sovranità sulla Transcarpazia e al trattamento estremamente discriminatorio che la stampa ungherese riporta porre in essere da parte del governo di Zelensky.
Sullo sfondo delle sue lusinghiere valutazioni della Cina è da notare il crescente peso economico e commerciale che Pechino esercita sull’Europa orientale, frutto di un lavoro diplomatico che affonda le sue radici negli anni ’70, più precisamente nel periodo degli ultimi anni di vita di Mao Zedong, in cui il Partito Comunista Cinese e il governo della Repubblica Popolare Cinese miravano a portare dalla propria parte i paesi dell’ex Patto di Varsavia (avevano già l’alleato albanese che affacciava sull’Adriatico) in chiave antisovietica, sfruttando certi sentimenti nazionalistici che serpeggiavano all’interno di molti di loro.
L’apparente neutralità nel discorso geopolitico di Orbán, simile a quella che possiamo ravvisare nella retorica e nel modus operandi politico di Erdoğan, mira piuttosto a creare in prospettiva per l’Ungheria una propria sfera d’influenza autonoma, un proprio spazio mirante a che anche Budapest abbia la propria voce in capitolo nelle questioni europee. Lo possiamo notare dalla tesi da egli espressa riguardo a come evitare un conflitto sempre più prossimo:
«La buona notizia (o perlomeno un barlume di speranza) è che la guerra non è inevitabile. Evitarla dipende dalla nostra capacità di trovare un nuovo equilibrio per rimpiazzare quello attualmente in vigore. La questione è di come pervenirvi. La verità è che si tratta di un compito per i “grandi”. Noi non abbiamo di queste carte in mano. Non ci facciamo illusioni sul nostro ruolo. Tutto ciò che possiamo dire è che adesso bisogna fare qualcosa mai fatto prima: i grandi devono accettare che vi sono due soli in cielo. Questa mentalità differisce radicalmente da quella con la quale abbiamo vissuto nel corso degli ultimi secoli. Quale che sia l’attuale rapporto di forze, le parti in causa devono riconoscersi come eguali».
Si tratta sicuramente di parole molto importanti, alla luce dell’attuale tendenza mondiale verso il multipolarismo. La cautela nelle azioni del governo ungherese nell’arena internazionale è ben espressa dalla convinzione del suo presidente per il quale questo processo di transizione occuperà il lasso di tempo di un’intera generazione e, pertanto, nella sua visione gli ungheresi debbono elaborare i propri “progetti nazionali” tenendo presente questo stato di cose.
Pochissimi giorni dopo questo discorso, una sollevazione militare guidata dal Generale Abdorrahman Tchiani ha rovesciato il governo filo-francese di Bazoum in Niger e ne ha instaurato uno filorusso, che ha ottenuto l’immediato riconoscimento non solo di Mosca, ma anche di Algeria, Mali, Burkina Faso e Guinea. La minaccia d’invasione da parte della Francia e dei suoi alleati locali, riuniti nell’ECOWAS, per ora non si è concretizzata per il venir meno del sostegno pratico a tale progetto. Alla luce di questi fatti, che segnano la probabile apertura di un ulteriore fronte nella “nuova Guerra fredda” tra Oriente e Occidente, la previsione di Orbán relativa ai tempi di attuazione della transizione al multipolarismo e alla prevenzione di un conflitto mondiale appare assai ottimista: gli eventi che si susseguono condensano in pochi mesi un quantitativo di svolte e sviluppi che occuperebbero anni in un periodo di “pacifico sviluppo costituzionale”.
Le sfide che attendono l’Ungheria dimostreranno quanto fondata e quanto utile sia questa cautela agli obiettivi definiti da Orbán nel suo discorso di Bálványo.
Riferimenti
- Il discorso da farsi per il caso della Serbia è più articolato, in quanto il comune sentimento antioccidentale del popolo serbo, dato dal ricordo ancora fresco dei bombardamenti americani su Belgrado e dai molti rancori relativi al modo in cui si è disgregata la Jugoslavia, impediscono alla classe politica post-Otpor di portare esplicitamente e rapidamente a compimento il suo progetto di inserimento del Paese nella NATO e nell’UE.