Riportiamo alcuni passaggi dell’approfondimento di Leonardo Tirabassi su Il Sussidiario dedicato a FDI e al suo atlantismo “d’acciaio”.
(Il Sussidiario) – Destano stupore le grida preoccupate di un possibile successo di Fratelli d’Italia guidato da Giorgia Meloni. I motivi d’allarme sarebbero il non gradimento internazionale, con gli allarmi lanciati dal giornale liberal Usa per antonomasia, il New York Times. Non importa che la Meloni partecipi alle riunioni dell’Aspen Institute, che sia intervenuta al Conservative Political Action Conference (Cpac) del Partito repubblicano, o che sia invitata dal think tank americano International Republican Institute, fondato da Ronald Reagan nel 1980; che sia in rapporti più che ottimi con l’ex ambasciatore Usa a Roma Lewis Eisenberg e con l’incaricato d’affari uscente, Thomas Smitham. Non importa che si sia circondata da consiglieri di esperienza internazionale comprovata e di sicura fede atlantica come il sen. Adolfo Urso, presidente del Copasir, da Gabriele Checchia, ex ambasciatore d’Italia alla Nato e in Libano, da Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro degli Esteri nel governo Monti, o che Checchia, già ambasciatore alla Nato attualmente presidente del comitato strategico del Comitato atlantico italiano, sia direttore della Fondazione Fare Futuro.
Giorgia Meloni dunque atlantista non di ferro ma di acciaio. Ma non è una novità per la destra italiana che proviene – senza offesa – dal Movimento sociale italiano (Msi). Gli unici a non saperlo forse sono i giornalisti nostrani, che confondono le diffidenze di Biden e del Partito democratico verso Fratelli d’Italia con l’atteggiamento del cosiddetto deep state, l’apparato che attua gli interessi strategici Usa, a partire dalla Nato.
Un po’ di storia. Ci pensò già nel 1951 l’allora segretario Augusto De Marsanich, già membro del Gran Consiglio del fascismo, nonché zio di Alberto Moravia, a spazzare le resistenze dei vinti, eredi del fascismo duro e puro, ad aderire alla Nato. A segnare la svolta atlantica vi fu la Guerra fredda e quella combattuta in Corea nonché l’avvento di Mao in Cina. Da allora, il filoamericanismo fu il filo conduttore della leadership missina a partire da Almirante. Da quel momento il Msi diventò per gli americani un osservato speciale, da maneggiare con cautela a causa della sua storia, ma utile in veste di anticomunista autentico per bilanciare – sempre secondo gli americani – gli scivoloni a sinistra del pilastro della democrazia e dell’atlantismo italiani, la Democrazia cristiana.
L’articolo completo: DIETRO FDI/ Msi, Cia, soldi, apparati: piccolo “viaggio” nell’atlantismo della Meloni