Più la censura – fisica e linguistica – si fa forte, più difendiamo i residui spazi di libertà. In una Preghiera su Il Foglio, uscita provvidenzialmente l’8 di marzo, Camillo Langone, suscitando le solite pulsioni censorie, ha raccontato:
« (…) Gli avevo chiesto nomi di scrittrici da interpellare per un mio pezzo. (…) Scrittrici italiane viventi. E con una scrittura che sia voce anziché eco come nel caso delle innumerevoli scrittrici scritte dalla moda, costrette dalla corrente, quelle che ripetono “patriarcato”, “patriarcato”, “diritti”, “diritti” e che magari non si vergognano di praticare l’aborto ortografico denominato schwa. Cercavo autrici dotate di lessico e pensiero personali, eredi delle varie Ortese, Ginzburg, Campo, Fallaci, e trovavo donne che scrivono libri su donne per donne, con dentro mamme e nonne e bambini, ambientati in manicomi e paesini (spesso del Sud, quel Sud dove non si legge ma dove si ambientano i romanzi). Insomma storie trite. Che destino beffardo, pensavo: aver finalmente occupato le case editrici e non avere più niente da dire».
Sempre con Preghiera, Langone risponde oggi a quella linguista così in voga: «Vera Gheno, linguista femminista italo-ungherese, sabotatrice dell’ortografia italiana e pure della fonetica (contro il maschile universale pretende si usi l’impronunciabile E capovolta), si domanda come sia possibile pubblicare testi come la mia Preghiera dell’8 marzo, definita “monnezza senza senso”. Me lo domando anch’io: come può esistere ancora tanta libertà di espressione? Tutto concorre alla sua scomparsa e io mi sento come quel calabrone che non sembrerebbe poter volare ma non sapendolo vola lo stesso. (…) Questa sua esplicitata brama conferma quanto ho scritto: l’attuale occupazione femminile dell’editoria (direzioni, redazioni, cataloghi, eventi) non c’entra con la letteratura, c’entra col potere. Non è urgenza di dire ma – incalza su Il Foglio – urgenza di impedire di dire».