Dalla linea del fronte con Svetlana Popova

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La morte, la fame, i bambini scomparsi, la ricostruzione. Da una conversazione avuta a Mosca con Svetlana Popova, giornalista russa che è stata al fronte e ha raccontato la verità.
La ringraziamo sia per il materiale fornitoci sia per la sua disponibilità, non scontata.

Svetlana Popova sul fronte

Il TazebaoIl fronte ribalta ogni prosettiva. Fa emergere prepotentemente la verità. Non è un caso che il reporter di guerra risulti sempre più indigesto a un potere tecno-politico insofferente verso ciò che sfugge a una narrazione mainstream tanto pressante quanto insopportabile. Lei sulla linea del fronte c’è stata, tanto ci basta. E ha cercato di documentare la verità della guerra, è un suo grande merito. Viene dal cuore vero della Russia la nostra Svetlana Popova, da Chelyabinsk.

Ci incontriamo però a Mosca, nella capitale euroasiatica della Russia, dove non pende un capello e si ricerca una coerente armonia tra la tradizione e il salto rivoluzionario, le vittorie, e una nuova Russia post, che post-sovietica non è proprio del tutto, e va bene così. E, dunque, pioggia di icone, le falci e i martelli non ci pensano proprio a sloggiare, Katjuša è cantata con sommo convincimento perché tutte le donne di ieri e di oggi vi si ritrovano, giganteggiano nastri di San Giorgio: Madre Russia in purezza. Non lontano da dove ci troviamo sorge il museo che celebra le imprese dei Cosmonauti, cioè della grande scienza russa. Lo visitiamo senza esitazione alcuna.

Ha girato diversi film e docu-film, la cara Svetlana, che lentamente e non senza dolore si apre, molti sono di carattere storico – uno sul trauma della guerra civile fratricida evidentemente ancora irrisolto –, ma l’esperienza della guerra è, appunto, un’altra storia. Si muore, tanto. Da ambo le parti. Si viene feriti e si soffre, si abbandona in fretta e furia il poco che si possiede. Non manca, anch’essa malcelata, una certa compassione per la controparte morente. Ci sono anche tanti episodi di umanità, è in corso una ricostruzione, quella vera e non quella raccontata in Occidente; di oggi la notizia di come Italia ed Europa siano rimaste con il cerino in mano stante il ritiro di Blackrock, che non smette di ricordarci come la guerra sia essenzialmente un’impresa economica nella quale si fanno puntate come in borsa o al casinò.

È più che mai prezioso conversare oggi con una giornalista, per di più russa, in Russia, in questo momento, in barba a sanzioni, sanzionatori rimasti in braghe di tela, pifferi sfiatati di una propaganda ufficiale che non convince più nessuno. Le masse disertano la televisione, la “casalinga di Voghera” pensa alle bollette.

“Nelle regioni di Zaporižžja e Cherson, incorporate da poco dalla Federazione Russa, la povertà morde – racconta a Il Tazebao Svetlana Popova -. Nessuna costruzione recente, ci sono solo edifici dell’epoca sovietica. Non ci sono strade, infrastrutture, ospedali”. Questi territori, a maggioranza russofona, sono stati usati come “base per produrre beni destinati all’Europa”. “Molti campi, per esempio, sono stati seminati a colza per decenni – ci spiega – così da rifornire la Germania, dove si producevano biocombustibili”. E la colza ha un effetto distruttivo sui terreni: “Non cresce più nulla, poi è deserto”.

“Queste regioni hanno subito una deliberata spoliazione a opera del governo ucraino”, ma ora “sono territorio russo” e “il nostro Paese ha iniziato la costruzione di strade”. “Mentre guidavamo, abbiamo assistito alla grandiosa costruzione di nuove autostrade. E quando le strade saranno costruite, inizieranno a costruire altre infrastrutture. Come già fatto in Crimea e a Mariupol”.

Ci spostiamo ancor di più sulla linea del fronte. “Sono stata tra i primi giornalisti – ci confida –ad entrare ad Avdiivka nella primavera del 2024. Il nostro esercito l’aveva appena conquistata, i carri armati sparavano ancora ed era in corso un combattimento ravvicinato. Avevamo con noi un sensore per droni e il capo medico ci ha chiesto di aiutarlo a evacuare un esploratore ferito. Lo stavamo tirando fuori dal fuoco nemico, io gli tenevo la mano. Un drone gli ha sparato a entrambe le gambe”.

“In ospedale – prosegue Svetlana – ho incontrato due civili di Avdiivka. E sono riuscita a registrare un’intervista con loro. Di solito, non parlano con i giornalisti perché temono ripercussioni, anche molto gravi, sulle loro famiglie. Mi hanno detto che quando Avdiivka era sotto il controllo dell’Ucraina, la vita era molto dura. Avena marcia e un po’ di burro: ecco cosa avevano come cibo. Le persone venivano costrette a fare flessioni per strada e, talvolta, alcuni venivano colpiti con il calcio del fucile”. Ma il peggio riguarda i bambini, che “venivano strappati ai genitori e portati verso una destinazione sconosciuta. Nessuno ne sa più niente”.

Il suo racconto diventa sempre più toccante. “In ospedale – racconta, da mamma, con difficoltà – ho incontrato un bambino di nome Dima, aveva 4 anni e voleva tanto giocare con me. Lo tenevo in braccio e mi baciava il viso. Dima è stato l’unico bambino che si è salvato da Avdiivka. Sua sorella minore Masha è morta di polmonite contratta perché, per sottrarli all’esercito ucraino, i genitori li avevano nascosti in cantina”.

Questa è la guerra, questa è la verità. Grazie, Svetlana.

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