Cracco – non Gracco – chiude. Visto che il mercato – dice – ha sempre ragione, ha avuto torto Cracco. Con buona pace dei «sùbiti guadagni». Non basta stare in centro – limes igienico – e non basta fare “il lusso”, che probabilmente sta già altrove, per di più in una società sempre più povera e nomade; non basta nemmeno fare i programmi pop in tivvù perché la casalinga di Voghera, ammesso non abbia tirato il calzino e i nipotini non abbiano fatto la nuda proprietà, ha tagliato i viveri.
La verità è che i luoghi vivono se dentro e intorno a loro c’è un popolo, sì un popolo, che li frequenta. Non una massa indistinta. Ristoranti, librerie, botteghe, teatri vivono di un’umanità che vi ritrova un’offerta che non è solo economica e/o di status (reale o presunto). E poi bisogna imparare a leggere la società, le sue trasformazioni e contraddizioni, e a fare le analisi di mercato e quindi a posizionarsi: non bastano LinkedIn e i creativi o le ricerche fosforescenti sulla buyer persona.
Sicché, infine, con questo crack-co, anche il mito della Milano globale, quella – per intendersi – rinata dalle sue ceneri tra fine degli anni Novanta e 2000, tra ribellismo leghista, calzini arcobaleno, aperitivo sul Naviglio, quella dove per abitare – si vedano i video di “Un terrone a Milano” su Instagram – gli studenti spendono anche 400 euro/mese per una tripla, fa acqua. Del resto, prima di dimenticarsene, la città ambrosiana era una città d’acqua.
Tante bolle scoppieranno, sarà una lenta resipiscenza, per chi vorrà capire. Non solo a Milano. Così è. Sine ira et studio.