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Africa: un problema che la classe dirigente deve porsi. L’importanza delle infrastrutture

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In occasione della Conferenza Italia-Africa, Il Tazebao ripubblica l’intervento di Lorenzo Somigli alla conferenza “Voci africane: verso una prospettiva multipolare”.

Un ringraziamento agli organizzatori, ai presenti e a chi ci segue da casa. Non condivido molti dei contenuti ma vi ringrazio per avermi coinvolto così da portare una prospettiva diversa: solo in questo modo si fa dibattito e, spero, si cresce. Saluto, con sommo piacere, i colleghi africani che sono intervenuti prima: senza il confronto con loro ci parliamo addosso.

C’è anche l’amico Jean-Claude Martini che, come me, è un ragazzo del bel Campo di Marte che fu, in una Firenze stretta dalla monocoltura turistica. Ringrazio anche Giovanni Amicarella che per primo mi ha coinvolto: l’ho conosciuto oltre un anno fa e l’ho visto maturare, maturare politicamente. Questi ragazzi collaborano attivamente a Il Tazebao – ricorderete lo storico manifesto demandarinizzato di Mao – perché c’è un’informazione controcorrente che fa pensiero, il più possibile profondo.

Sono convinto che l’unica chiave di lettura corretta per comprendere la contemporaneità e lo scontro in corso sia quella che coglie l’evoluzione del capitalismo verso il capitalismo politico, il sistema globalmente diffuso di controllo e produzione, affermatosi sempre più dalla pandemia. Dunque, non credo all’ipotesi di un mondo multipolare o comunque la trovo una semplificazione rispetto alla profondità di questo sistema di comando.

La mia conoscenza diretta dell’Africa, salvo il Nord e in particolar modo la Tunisia, è limitata ma ho cercato negli ultimi mesi di lavorare sui temi dirimenti, come le infrastrutture, soprattutto per il centro studi IFIMES di Lubiana o per la rivista Transatlantic Policy Quarterly di Istanbul.

Provo a partire da quella che rimane la costante per capire lo sviluppo della storia e del mondo: la geografia e come il già richiamato potere si interseca con questa. La geopolitica.

La geografia è sempre quella: la penisola italiana è posta felicemente in mezzo al mare più geopolitico di tutti, un «mare di mari», per dirla con Braudel. L’Italia ha da sempre una grande attenzione ai popoli africani, ai popoli che soffrono e che lottano per la libertà. Penso al capolavoro di Gillo Pontecorvo sulla battaglia di Algeri; proprio l’Algeria sarà uno dei punti cardine della politica italiana nel Mediterraneo. Penso a un coraggioso Finché c’è guerra c’è speranza con Alberto Sordi che si pone criticamente di fronte al commercio delle armi.

Il problema dell’Africa, insomma, la classe dirigente deve porselo, come problema quotidiano. La politica, del resto, è la capacità di vedere il problema dell’altro come proprio. L’attuale governo ha avviato i cantieri per il Piano Mattei, che deve ancora essere completato di contenuti.

Fino ad oggi, mentre in altri paesi come la Turchia o come la Cina una politica per l’Africa è ben presente da anni, non era stato prodotto alcunché e non era stato mai posto il problema di governare politicamente il problema. Oggi c’è un tentativo, sicuramente perfettibile, di porre rimedio a un vuoto.

Secondo la geopolitica classica, quella di Mackinder e Spykman – cito questi studiosi anglosassoni perché assistiamo a un ritorno dello scontro lunga la faglia critica in zone che sono determinanti come Palestina e Ucraina – l’Africa ricopre una funzione quasi marginale: la parte del Nord che è, invero, parte integrante del Rimland, con una possibile espansione al Corno d’Africa e dunque al Madagascar; una fascia interna e centrale dominata da condizioni geografiche ostili, che impediscono un pieno sviluppo e un pieno sviluppo di un potere politico ordinatore; infine, quella considerata totalmente periferica, nel Sud.

Si tratterebbe della teoria del “Secondo Heartland” che, però, non è stata fino ad oggi approfondita, anche perché ogni teoria viene portata avanti a seconda delle contingenze geopolitiche e delle esigenze delle classi dirigenti: a inizio Novecento il focus strategico insisteva sul cuore della Terra ovvero la Russia. Penso sia il tempo di aggiornare i paradigmi.

In effetti, a questo architrave teorico, per lo meno riguardo al ruolo marginale dell’Africa, tendo a credere poco, sia perché non è del tutto marginale sia perché si è rivelato continente ricco di risorse e popoloso. Lo sottolineo perché le masse popolari, con la loro forza del numero e la loro pressione, reclamano uno spazio nella storia che non possiamo ignorare; per molto tempo anche noi siamo stati «una grande proletaria» in cerca di uno spazio nel mondo. Non solo, c’è sempre un rischio di deriva razzista nel determinismo geografico, quindi la useremo cum grano salis.

La domanda è, appunto, come governare politicamente questo processo. Io non credo che l’arroccamento funzioni perché è fisicamente impossibile, come non credo a questa visione palingenetica del meticciato, per come ci è stato venduto negli ultimi anni, forse dimenticando quali interessi economici si nascondano dietro le tratte di persone sradicate e senza terra, che spesso muoiono nel mare nostrum.

Le condizioni geografiche sono, in un certo senso, immutabili e dettano uno sviluppo dell’uomo. È vero anche che le opere infrastrutturali hanno cambiato il corso della storia. È Colbert uno degli artefici della Francia moderna grazie alle straordinarie opere idrauliche del Canal du Midi che connette Mediterraneo e Golfo di Biscaglia. La Transiberiana, straordinaria intuizione di Sergei Witte, che permette la colonizzazione e lo sfruttamento della Russia asiatica. Lo stesso sviluppo industriale dell’Italia ma anche l’espansione delle libertà si devono al superamento della barriera degli Appennini.

È chiaro che il ritardo infrastrutturale sia uno dei nodi che frenano lo sviluppo dell’Africa. Di questo tema non si parla più dimenticando che le infrastrutture sono chiave di sviluppo e di libertà. Ecco perché lo storico accordo Italia-Libia, concretizzato dal compianto Silvio Berlusconi, portava con sé la costruzione della strada costiera nel solco della grande tradizione italiana; poi la grande destabilizzazione del 2011 ha travolto prima i fratelli libici poi noi.

Per cercare di arricchire il dibattito con un po’ di concretezza, i punti fondamentali su cui intervenire sono: il potenziamento della direttrice Nord-Sud, come nel caso del corridoio Cairo-Dakar, e di quella Est-Ovest come nel caso del corridoio Lobito-Beira oppure di una tratta complessa e articolata che connetta Dakar con Djibouti passando per N’Djamena; l’ammodernamento dell’esistente visto che oltre il 40% delle strade non è ancora asfaltato; il potenziamento della rete ferroviaria, oggi largamente carente, e l’esempio migliore è quello della tratta Addis Abeba con la già citata Djibouti, realizzata con investimenti cinesi, che ha permesso di ridurre a 10 ore il tempo di percorrenza.

Voglio introdurre un ultimo concetto. Da quasi due anni siamo entrati un’era di scarsità. La priorità è costruire un sistema che garantisca la certezza di energia e di cibo, come ha spiegato anche Sébastien Abis a L’Express, un problema che non si pone solo per gli africani ma anche per noi che siamo abituati al benessere.

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