Un focus dettagliato sul sistema elettorale israeliano, imperniato sul proporzionale puro che è causa, secondo molti, dell’attuale instabilità politica.
La democrazia israeliana è tornata al voto. E, come sostengono molti, probabilmente ci dovrà tornare di nuovo [1] tra uno, massimo due anni. In attesa di una chiarificazione ulteriore del risultato, che si avrà forse domani, e degli equilibri nella Knesset, si può affermare che la sconfitta di Bibi non c’è stata e, che, al momento, sebbene osteggiato, le opposizioni non siano in grado di far emergere una leadership alternativa a quella di Netanyahu. L’affluenza bassa (60,9%, per gli arabi) ha colpito principalmente i due partiti arabi. Come sempre successo si andrà verso un governo di coalizione.
In quanto a ipotesi di allargamenti della coalizione c’è da segnalare l’apertura del partito Ra’am ad un governo di interessa nazionale. Come nota il Vicepresidente di UGEI David Fiorentini in un contributo precedente su Il Tazebao essa può essere frutto degli Accordi di Abramo che avevano avviato una fase di distensione dei rapporti tra Israele e mondo arabo. Ennesima dimostrazione che i fatti di politica estera abbiano ripercussioni più vistose su quella interna di quanto si possa preventivare.
Un’inguaribile instabilità
Il primo indiziato dell’instabilità politica è il sistema elettorale, ovvero il proporzionale puro con collegio nazionale a liste chiuse. Il sistema elettorale israeliano prevede uno scontro tra liste partitiche e non tra singoli candidati, quindi senza preferenze. In alcuni casi – questo riguarda i partiti di grandi dimensioni – si tengono anche delle primarie (pratica introdotta non senza fatica) all’interno degli stessi e nei partiti religiosi, come nel caso di quelli di estrema destra, è la guida spirituale/religiosa a indicarne il leader. Ogni partito che supera la soglia di sbarramento del 3,25% si assicura almeno quattro seggi nella Knesset. Se il partito X supera la soglia, i primi quattro candidati della sua lista entrano in parlamento. Se prendono il 10%, entrano i primi dieci e così via.
Le riflessioni di Sergio della Pergola e un’ipotesi di riforma elettorale
Il demografo israeliano di origine italiana Sergio Della Pergola ha sottolineato come la crisi politica in cui versa il paese sia da imputare ad un sistema elettorale “arcaico” [2].
Della Pergola si è espresso sul parlamento israeliano come segue:
“Una Knesset che rappresenta l’affascinante sociologia israeliana ma è totalmente incapace di gestire gli affari del paese” [3].
Un aspetto poco conosciuto è l’assenza di distretti elettorali. Il territorio israeliano è l’unico distretto elettorale del paese.
Della Pergola, infatti, suggerisce, come possibile via di uscita, la suddivisione del territorio israeliano in centoventi distretti elettorali affidando questo incarico alla Commissione Elettorale Centrale sotto il vigile controllo della Corte Suprema. In ognuno di questi distretti, uguali per demografia, bisognerebbe adottare un sistema a turno unico come negli USA oppure a due turni come il caso francese. Solo in questo modo i politici possono diventare più responsabili e coscienti del loro operato perché si istaurerebbe una rispondenza diretta con gli elettori.
Un sistema esito di una società complessa e composita
Esso è frutto della società che si promette di rappresentare: una società nata nemmeno un secolo fa, costantemente minaccia da fuori e da dentro, e soprattutto solcata da profonde fratture socioeconomiche ma soprattutto etnico-religiose. Che scompongono il quadro nel suo insieme ma anche all’interno dei singoli partiti e coalizioni [4].
Alle fratture che separano le comunità si sommano le linee divisorie che si moltiplicano all’interno dei singoli gruppi. Esse risalgono ai tempi dell’immigrazione – gli ebrei stessi sono arrivati a ondate e oltre a quelli dell’Olocausto ci sono stati quelli del Medioriente, del Nord Africa etc… – alle differenze nella pratica religiosa e quindi nell’aderenza alle regole dello halacha.
Basti citare il recente caso della coscrizione degli ebrei ultraortodossi, sempre più in crescita in termini di popolazione, che ha fatto saltare il governo Netanyahu nato nel 2015. Sul versante arabo, lo stesso Ra’am, che potrebbe favorire un governo di emergenza (ammesso che superi la soglia), estremamente conservatore nei valori, è solcato all’interno da profondissime differenze, tenute insieme solo da lingua ed etnica araba.
La democrazia israeliana, insomma, si ritrova ancora una volta nella crisi politica e per di più durante la pandemia e mentre gli USA stanno rivedendo la loro politica mediorientale.
Dal blog di Jordan Magill
Un’altra influente personalità che critica il sistema elettorale israeliano è Jordan Magill, scrittore e blogger di The Times of Israel, il quale fornisce già dal 2015 un quadro affascinante di questo problema per niente secondario. Nel suo articolo “No metter which faction wins, under this election process Israel loses” [5], Magill osserva come il nocciolo del problema sia l’assenza di distretti elettorali. Esiste un unico distretto che corrisponde all’intero territorio israeliano.
A questo punto, Magill immagina il seguente scenario: nella città Y ci sono cento cittadini israeliani aventi diritto al voto. Questi possono votare per qualsiasi partito essi vogliano ed alcuni di questi partiti vincono grazie ai loro voti. Ma nonostante la vicinanza geografica di questi elettori, nessun politico sarà in grado di rappresentare la città come un’unità, cioè nel suo insieme. Se questi necessitano infrastrutture, non sanno a chi rivolgersi, non hanno dei membri all’interno della Knesset che si facciano portatori dei loro problemi all’assemblea. Non c’è un contatto diretto tra elettori ed eletti: non si conoscono a vicenda. Per i politici, gli elettori sono mere astrazioni. E queste astrazioni sono prive di potere.
Questo sistema, che un tempo, alla fondazione e nei primi anni dello stato israeliano aveva un suo senso, adesso non serve più. Inizialmente il contesto sociale israeliano era un mosaico. L’impresa sionista iniziò come un movimento altamente fazioso. A causa di questa diversità di fazioni (religiose, etniche, economiche, politiche) era necessario garantire a tutti una voce nel governo. Oggi questo sistema crea solo scompiglio: è frustrante soprattutto per la maggioranza.
Sempre Magill continua scrivendo che anche quando il partito che guida la coalizione di governo non mantiene le promesse fatte agli elettori, e trattandosi di politica è routine, questi, invece di supportare l’opposizione, si rivolgono ai partiti minori della stessa coalizione di governo. Di conseguenza gli stessi partiti, già poco polarizzati ideologicamente e programmaticamente, sono più confusi di prima: non sanno minimamente identificare il proprio elettorato. Se si fanno interpreti degli interessi di una minoranza in particolare, allora sposteranno l’attenzione dell’intera coalizione di governo dagli interessi della maggioranza a quelli della minoranza che loro rappresentano in quel momento.
Ecco che anche l’offerta politica che gli stessi partiti offrono all’elettorato non è molto variegata: essendo l’elettorato molto fluido, i politici si appellano a problemi generali diffusi nel paese.
Parlare di sicurezza nazionale per esempio fa sempre comodo. Si può raggiungere una base molto vasta di elettori perché data la posizione geografica, la sua composizione sociale interna e la storia in generale di Israele, il tema della sicurezza è cruciale per tutti.
L’autore, infatti, si domanda:
“If you can’t really identify your constituency, what is the point of discussing domestic issues?” [6] (“Se non è possibile identificare il proprio collegio elettorale, qual è il senso di discutere questioni domestiche?”).
Una vasta fetta di popolazione israeliana è completamente dimenticata, non ha voce, è come se non esistesse.
Conclusioni
Esiste una soluzione all’illusione della rappresentanza? Magill conclude sostenendo che se i politici eletti con e in questo status quo fossero abbastanza coraggiosi da modificare il sistema elettorale, si potranno vedere dei cambiamenti. Definisce, infatti, il proporzionale un sistema elettorale fallito che non rappresenta più la maggioranza degli israeliani.
I risultati delle precedenti quattro elezioni, incluse queste del 2021, sembrano confermare le perplessità di Della Pergola e di Magill: Israele ha superato la logica proporzionale e dovrebbe rendersene conto quanto prima.
Con le parole di Della Pergola:
“Fino a quando si userà lo stesso metodo elettorale con la proporzionale pura, si arriverà allo stesso risultato, il sistema elettorale favorisce la frammentazione dei partiti” [7].
- Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor, in “Israele: le ragioni dell’ennesimo successo di Netanyahu” del 24/03/2021.
- Sergio Della Pergola intervistato da ADN Kronos: “Israele, Della Pergola: “Quinte elezioni possibili, sistema elettorale arcaico”.
- Daniel Reichel, “Israele – Un sistema elettorale da cambiare” su Moked del 13/03/2015.
- Alan S. Zucherman, “Tra fratture e convergenze: etnia e religione nel voto israeliano degli ultimi vent’anni” (1999).
- Jordan Magill, “No matter which faction wins, under this electio process Israel losses” del 12/03/2015.
- Ibidem.
- Ibidem.
- Sergio Della Pergola nella già citata intervista: “Israele, Della Pergola: “Quinte elezioni possibili, sistema elettorale arcaico”.
Ha collaborato Lorenzo Somigli
Della stessa autrice
C’era una volta – “Connection before Correction” – Il Tazebao
C’era una volta – La possibile “Alleanza di Abramo” – Il Tazebao
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