Il Nodo di Gordio – È il primo vero film di Sordi, caratterizzato soprattutto per la gag con cui l’Albertone nazionale, Giarabub è ormai alle spalle, chiama insistentemente la Signorina Margherita. Ma non c’entra niente con questa Stoccata. Ci è venuta così d’emblée per rappresentare l’atteggiamento della cultura storica nazionale nei confronti dei cento anni della Marcia su Roma. Reticente, imbarazzato, va da sé, politicamente corretto.
Il bravo Gennaro Sangiuliano nominato a ridosso dello scomodo anniversario – Jack Lang è il modello che piace alla gente che piace – si è rifugiato in calcio d’angolo. Le prefiche di mestiere del male assoluto erano in agguato. Se l’è cavata con Umberto Boccioni morto provvidenzialmente nel 1916, l’immancabile Rinascimento, Leopardi, Dante, a proposito il film di Pupi Avati non ci ha convinto, noi che siamo avatiani da Jazz Band, e naturalmente Antonio Gramsci, assorto a cantore ufficiale dei caratteri nazionali.
Chissà come sarà orgoglioso Palmiro Togliatti a cui va il merito del recupero in tutti i sensi dei Quaderni del carcere, ma anche Berlinguer e Valentino Gerratana, rispettivamente nume tutelare e curatore dell’edizione Editori Riuniti del 1975, una ganzata che andò letteralmente a ruba tra gli intellettuali-massa organici. E chissà cosa ne pensa nel Paradiso comunista il grande Georgiano se ancora non li stressa con Pietro Secchia e le convocazioni a Mosca. Ormai ha assolto il Migliore, non ha colpa se Kruscëv al XX Congresso non tenne conto della sua piccata levata di scudi contro l’opportunità del rapporto segreto.
Sì è vero, è uscito qualche libro sul tema e in un caso ha anche venduto un po’, mi confermano i miei amici edicolanti veri terminali del consenso di massa. Del resto i professoroni di Lettere e Filosofia non stanno più nel comitato centrale del PCI ed i professorini di adesso tirano “quattro paghe per il lesso”, a dirla col Carducci.
Giorgia, che ha il grande merito ai nostri occhi di essersi fatta da sola nella periferia romana degli edili e dei sottoproletari pasoliniani, non si fa mettere in trappola facilmente.
E poi il Belpaese deve fare i conti con le bollette dell’energia, non c’è sugo a provocare la prima donna Presidente del Consiglio, ai social media non gliene frega niente dei patentini dei perbenisti aristocomunisti, fanno già fatica ad inquadrare storicamente il Novecento. Gli industriali, conte Volpi docet, sono sempre stati governativi. Della scuola è meglio non parlarne.
Allora onore a Rai Storia che domenica 23 ottobre ha dedicato una maratona alla marcia su Roma guidata da Emilio Gentile, storico equilibrato che sa usare bene le parole ed ogni tanto fa filtrare delle verità scomode. Perché sul fascismo è vietato persino ironizzare, bisogna sempre mettere le mani avanti, la seriosità boldriniana è lex. Questo vale anche per noi dal pedigree inoppugnabile, nonni comunisti, padri partigiani e militanza giovanile certificata nell’antifascismo dello slogan gridato in cento cortei: “MSI fuorilegge, a morte la DC che lo protegge”.
Proprio così amici miei marxisti immaginari, prima che entraste nelle redazioni bellicose dei giornaloni, queste sì davvero all’insegna dell’Armiamoci e partite. Non fate finta di non ricordarvelo. Ci mancava questo Mark Cousins, spacciato non si sa perché per (nord)-irlandese, a pensar male si fa (quasi) sempre bene, ma nato a Coventry e vivente ad Edimburgo, a spiegarci quell’operazione di comunicazione politica magnificamente realizzata da Ejzenštejn nel 1927 con Oktjabr’, in contemporanea con l’affermazione di Stalin XV congresso del PC(b) rimuovendo dalla narrazione due calibri del peso di Trockij e Zinov’ev.
Eppure c’è stato un tempo, era il 1962 e i fatti di Genova contro il governo Tambroni erano ancora freschi, in cui Dino Risi girava La marcia su Roma con Gassman e Tognazzi, dopo Una vita difficile ed insieme a Il Sorpasso, prima de I Mostri.
Un capolavoro dietro ad un altro, una rilettura, direbbe Quaderni Piacentini, ahimè quanto ci manchi, della storia nazionale in cui la storicizzazione e la pietas si fanno narrazione popolare.
Non difettano del resto in quegli anni le risate sulla contemporaneità. Billy Wilder si fa beffe del Muro di Berlino con il travolgente Un Due e Tre e prima dell’Ultimo Tango a Zagorolo idolatrato da Goffredo Fofi ai danni di Bertolucci ci pensano Totò e Peppino divisi a Berlino, sempre nel 1962, a giuocare con la guerra fredda. Un giuoco perché il cinema è spettacolo e vi si può fare la Grande Storia con geniale leggerezza senza perdere di profondità. Come insegna Ernst Lubitsch nel 1942 in Vogliamo vivere (To Be or not To Be) una satira pungente del nazismo. A meno che insieme alle statue di Colombo e di Cecil Rodhes si voglia buttare giù buona parte della civiltà occidentale, andiamoci piano però che i processi della cancel culture potrebbero riservare sorprese e nel tritacarne del politically correct potrebbero finirci anche tanti cosiddetti buoni. Machiavelli e Guicciardini sapevano bene che gli imperi non si edificano con la morale, compresi quelli del Bene.
Tornando a questo centenario in sordina, Rai Storia nella maratona prima richiamata ci ha riproposto Nascita di una Dittatura, lo splendido programma dei primi anni settanta. Un bianco e nero severo da inchiesta come gli eventi di cui tratta: il dramma di una crisi politica e di una svolta che è soluzione di continuità del processo unitario nazionale. Le radiose giornate di maggio, la tragedia della guerra, il putsch bolscevico e l’alba sovietica, Versailles, l’occupazione delle fabbriche e il massimalismo socialista, il tramonto di Giolitti, i timori, il temporeggiamento e l’astuzia di Vittorio Emanuele III, altro che Sciaboletta, il tempismo politico e la determinazione del futuro Duce. Sfilano i protagonisti dell’ultimo mezzo secolo italiano, da Bordiga a De Marsanich, da Gronchi a Lucifero, Rachele Guidi parla di suo marito, Pietro Nenni, e non fa sconti al compagno romagnolo di lotta e di prigionia. Emilio Lussu, già autore di Un anno sull’Altipiano da cui Rosi ha tratto un cult-movie teso come Uomini contro, definisce la marcia su Roma un colpo di stato della Corona.
Non vogliamo qui farne una sintesi pretenziosa, soltanto sottolineare l’eccezionale valenza storica di un progetto televisivo profondo quanto avvincente nella sequenza degli avvenimenti, sobrio e netto nelle testimonianze fatte in un italiano chiaro ed efficace ad imitazione della prosa cesariana.
Siamo nel 1972, oltre il centro-sinistra ed il terrorismo è in azione, le fibrillazioni sociali e geopolitiche aggrediscono il miracolo economico del dopoguerra.
Tre anni dopo uscirà l’Intervista sul Fascismo di Renzo De Felice. Michael A. Leeden mette in cantiere il suo brillante futuro, ancora non è stato a cena con Sophia Loren, Carlo Ponti e Francesco Pazienza, facendo da mallevadore al discorso del biografo di Mussolini che puntualizza sine ira et studio l’esperienza storica del fascismo e ne contesta sostanzialmente i luoghi comuni ciellenisti. Proprio, a nostro avviso non casualmente, nel momento in cui il PCI sembra ad un passo dal farsi maggioranza elettorale.
In particolare menerà scandalo il collegamento tra fascismo-movimento e i nuovi ceti medi che cercano spazio forzando i costumi e le compatibilità del decrepito regime liberale, in una tensione verso la modernità, anticipata dal futurismo, dai tratti frenetici del Fortunello di Petrolini.
Chi pensava che questa sarebbe stata la svolta per una ricucitura, non azzardiamo neppure condivisione, della Storia patria del Novecento rimarrà deluso. Mani Pulite portando al potere il ceto politico post-comunista pietrificava invece ad usum populi la narrazione del Bene contro il Male assoluto, la trasferirà sul piano astrattamente a-storico così caro a certa storiografia puritana, la spettacolarizzerà nel tessuto sociale attraverso la penetrazione pervasiva del politicamente corretto.
Il capolavoro di Sergio Zavoli mancherebbe oggi dei presupposti di scrittura, così come un’altra coraggiosa produzione televisiva del 1993 passata sotto silenzio, Il Giovane Mussolini, nonostante che Mussolini socialista fosse interpretato da una star come Antonio Banderas.
Lo abbiamo ricordato al Signor Draghi, lo ribadiamo fiduciosi al nuovo Presidente del Consiglio: senza memoria non c’è futuro.