Somigli: “Il nostro Tazebao uno spazio di libertà”. E sul fascismo: “Gravi le responsabilità delle classi dirigenti, il nazionalismo di Mussolini è il collante che la borghesia italiana cercava”.
Il Tazebao raggiunge i primi due anni di attività ed è un traguardo da celebrare con un bel convegno, non più mascherati. In questo caso insieme all’Archivio Riformisti Socialisti (ARS), con cui c’è una collaborazione di lunga data. Il nostro Tazebao ha scelto un percorso alternativo, plurale ma soprattutto chiaro, aperto ma sempre chiaro.
Dico, inoltre, che è ancor più importante esserci oggi: dobbiamo imparare a rompere questo autoisolamento e questa autoreferenzialità, in cui siamo stati forzati; dobbiamo imparare di nuovo il valore del pensiero altrui e del tempo-spazio condiviso; dobbiamo riscoprire la presenza dell’altro. E visto che la vita è una continua ricerca di autonomia e spazi di libertà, ecco che Il Tazebao è e rimarrà uno di questi: uno spazio di libertà.
Venendo al tema di oggi. Trovo illogico rimuovere la discussione, anche perché la storia è primariamente una scienza e una scienza per sua natura vive del dibattito e dell’autocritica e qui mi fermo. È puerile, in secondo luogo, fingere che il 28 ottobre di un secolo fa non sia successo nulla quando è successo qualcosa che in un modo o in un altro ha inciso su tutti noi, nell’insieme o come singoli, nella grande storia o nelle storie molecolari di ognuno. Dobbiamo, infine, evitare ogni tipo di interpretazione semplicistica del fenomeno che ha cambiato la storia italiana e non solo d’Italia.
In questo intervento di apertura e, senza presunzione di esaustività, provo a evidenziare alcune delle cause profonde che rendono possibile l’avvento del fascismo; del resto, historia non facit saltus. Le varie storture nel processo unitario; la presenza di una borghesia media o medio-bassa in espansione, desiderosa di direzione politica, che trova nel nazionalismo quell’identità di classe che altrimenti non avrebbe avuto; sottovalutazione da parte delle fragili classi dirigenti di un fenomeno, a tutti gli effetti, di massa.
Il primo e più grande errore delle classi dirigenti italiane, che si sono trovate a gestire una nazione nuova, una nazione che si fa nel corso di un decennio sostanzialmente, dopo essere stata spezzettata per oltre un millennio, con tutti i problemi di omogenizzazione connessi, è stato ignorare la preponderante questione sociale.
Per Gramsci – mi riferisco al suo pensiero contenuto nelle “Modernità Alternative” di Giuseppe Vacca – l’Italia unita si fa non tanto per uno sviluppo capitalistico debordante, tale da giustificare la creazione di un mercato nazionale ma per la capacità del Piemonte di leggere le contingenze internazionali e proporvisi come interlocutore.
Da qui deriva il “compromesso” tra gruppi industriali e latifondisti che, poi, sul piano economico, troverà nel protezionismo il punto di caduta.
Del resto, industria, anche grande industria – quella grande industria che si lega sovente alla finanza, al mondo politico e all’editoria in una commistione così tipica del “caso italiano” – e agricoltura non si fanno concorrenza; questa unità d’intenti impedisce qualsiasi tentativo ricambio della classe dirigente e, quindi, ogni tipo di presenza dei nuovi corpi sociali. I diseredati come i nuovi borghesi.
In più, sul finire del secolo, lo stato liberale, protezionista in economia, cerca di blindarsi e accentua i suoi caratteri tipicamente autoritari; lo si vede con il frequente ricorso alla decretazione d’urgenza, all’uso dello stato d’assedio per sedare i moti della Lunigiana o la protesta dello stomaco, alle chiusure del parlamento.
Lo stato respinge con l’uso sistemico della forza ogni istanza di cambiamento del corpo sociale.
Mi appoggio sempre a Gramsci, citato nelle “Modernità Alternative” di Giuseppe Vacca, nel quale rileva che la rivoluzione era sostanzialmente non esportabile e che la Russia destinata a rimanere un’eccezione. La “lava rossostellata”, per dirla con Majakovskij, poeta russo ma tutto futurista, non avrebbe sfondato.
L’Italia, come altri paesi dell’Europa, seppur periferica alle potenze capitalistiche, presentava una stratificazione molto più complessa di quella russa, una lunga coda di quel policentrismo così tipico delle società medioevali, di quei vuoti di potere e resistenze che si perpetua nel prosieguo: ecco, dunque, proletari, semiproletari, sottoproletari ma anche partiti socialdemocratici, sindacati, piccole e medie borghesie. Ciò – la riflessione è del 1926 – impedisce una saldatura efficace tra operai e contadini. Ed è proprio la piccola e media borghesia quella “riserva di politica”, cui attinge il fascismo e per la quale il nazionalismo diventerà il collante identitario.
L’ultimo punto, ricollegandomi ai precedenti, è l’essere un fenomeno spiccatamente di massa e, quindi, massmediologico. Ci si concentra sul rapporto tra il fascismo e i media principalmente dal 1922-1925 in poi, sottovalutando il periodo precedente che è non meno determinante.
Mussolini ha l’intuizione di leggere il passaggio verso la società di massa, appropriandosi del medium per parlare alla massa.
Oltre al suo Popolo d’Italia, si circonda di una serie di giornali come Il Popolo di Trieste, Cremona nuova o ancora Istria nuova smaccatamente vicini, accanto a questi Il resto del Carlino e il Piccolo che si allineano celermente; altri, da La Nazione fino a La Stampa (storicamente giolittiano), si mostreranno accondiscendenti verso una “normalizzazione”.
Mussolini, insomma, si dimostra capace di parlare a una borghesia, come quella italiana, lo abbiamo accennato prima, fortemente scomposta e priva di un collante identitario, attraverso una pluralità di pensatori – sono, sempre con Gramsci, gli “intellettuali dello strato intermedio” – che diffondono e modellano il suo messaggio nazionalista per il proprio pubblico. Sul piano della comunicazione è modernissimo e modernizzante.