Non era un covo di miliziani né un deposito, ma i cristiani in Medio Oriente sono abituati ai lutti, e all’indifferenza.
Il Tazebao – All’alba, la Chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza è stata colpita da un raid israeliano. Nella polvere e nei detriti è morto l’ennesimo pezzo di quello che resta della cristianità mediorientale. La Chiesa colpita non era un deposito di armi, né un covo di miliziani. Era, ed è ancora, nonostante i muri crollati, un rifugio per chi crede e per chi semplicemente cerca di non morire.
Non è la prima volta che le bombe si accaniscono su mura sacre, e non sarà l’ultima. Ma l’eco mediatica questa volta si è fatta sentire. È bastato che la parola “chiesa” rimbalzasse tra le testate d’occidente per ridestare le coscienze narcotizzate. Ma i cristiani del Medio Oriente non chiedono compassione. Non l’hanno mai fatto. Non lo hanno fatto quando le croci venivano bruciate da Daesh a Mosul, non l’hanno fatto quando chi oggi governa la Siria, ai tempi con altre bandiere, a Maaloula li massacrava, svuotava i monasteri sotto la minaccia del kalashnikov e imbrattava i muri con versetti di morte. Non la chiesero quando le loro case venivano marchiate con la lettera ن come in tempo di pogrom, e nemmeno quando le loro chiese, secolari, venivano trasformate in stalle, basi militari o rovine commemorative. Non cercano l’abbraccio di chi li ricorda solo ora che si è superata una soglia importante, sono abituati ad essere invisibili, dimenticati, vittime del salmo sionista oggi come lo erano ieri dei canti salafiti. I cristiani d’Oriente portano sulla pelle la durezza del cedro e l’amarezza del sangue sparso. Sanno che lo Spirito, quando soffia, soffia dove vuole. Anche sotto le bombe.
Non saranno le betoniere di Netanyahu a spezzare il loro spirito. Troppo abituati al martirio e disillusi per crollare ora. Se la guerra ha una grammatica, chi porta la croce in quelle terre la parla da secoli. Ciò che indigna – ma non sorprende – è il risveglio selettivo delle coscienze. Il silenzio sulla carne palestinese martoriata giorno dopo giorno si rompe solo quando a essere colpito è un simbolo percepito come “nostro”. Sì, è infame chi ha saputo piangere solo i morti cristiani. Ma è doppiamente infame chi, notando quell’unico atto di pietà, ha avuto l’arroganza di sminuirlo. Chi ha detto: “Ti indigni per i cristiani, dove eri prima?” come se piangere un morto – qualsiasi morto – fosse di per sé colpevole, se non accompagnato da un timbro di purezza ideologica. L’infamia più subdola è l’ipocrisia di chi per parlare di due pesi, quasi vorrebbe sottintendere che se la croce è più “nostra”, allora quei morti non sono nobili come gli altri, non sono martiri alla stessa maniera, troppo familiari per quelle frange accademiche innamorate dell’esotico.
Che si pianga pure, anche tardi, anche male. I morti non hanno bisogno del nostro aplomb, hanno bisogno che almeno qualcuno dica: sono stati uccisi da Israele. E basta.
Su queste pagine non abbiamo mai taciuto. Non abbiamo mai giocato con le cifre come con i dadi. Abbiamo parlato quando tutti tacevano, alle colate di cemento ci siamo opposti anche quando le promulgava Donald Trump, così amato dai capi dell’Occidente. In Palestina il mosaico è complesso: musulmani, cristiani, laici. Ma sotto i colori diversi c’è un colore solo che sgorga, è il rosso del sangue ed è il rosso di una bandiera nazionale, quella palestinese. Rosso come il sangue dei bambini di Jabalia. Rosso come il sangue dei martiri armeni e assiri. Rosso come la veste liturgica della Pentecoste. Rosso come i banchi della chiesa di Gaza, adesso macchiati. In questo mosaico ogni tessera ha urlato, e ognuna è stata ignorata. Ma ora che si è colpita una tessera di troppo, qualcuno si è svegliato. Benvenuti, ma ora non tacete più e prestate attenzione a chi, nel frattempo, non ha mai smesso di contare i morti.