Il Tazebao – È durata appena due settimane la pace che Donald Trump si era vantato di aver mediato tra “Repubblica del Congo e Ruanda”, un compito del resto assai facile dal momento che nessun conflitto sussiste né si è mai verificato tra questi due Paesi; quello realmente esistente, che si combatte cioè nella Repubblica Democratica del Congo e i miliziani filo-ruandesi di M23, è ripreso dopo appena due settimane da questa strampalata vanteria, dettata unicamente, del resto, dalla bramosia delle materie prime nel Congo Democratico nutrita dalle imprese statunitensi. L’8 agosto, il vertice che doveva svolgersi in Qatar tra i due contendenti, governo e ribelli, è andato deserto, ufficialmente per «mancanza di inviti», di fatto per divergenze di principio in cui Kinshasa chiede il ritiro completo di M23 dai territori occupati (tra cui le città strategiche di Goma e Bukavu) e quest’ultimo esige invece la federalizzazione e il rilascio di 700 dei loro combattenti catturati. I dieci giorni di scadenza fissati per la firma di un accordo di pace sono ampiamente trascorsi e, come previsto, non si è arrivato a nulla. Gli scontri sono dunque ripresi e i miliziani stanno conquistando nuove porzioni di territorio: già catturati gli insediamenti di Kattuunda, Remeka e Kashau, località che ai più non dicono nulla ma che ospitano due miniere di coltan. È questo, in fin dei conti, il nodo del contendere: chi finanzia questa guerra punta a estrarne su ambedue i lati del fronte, e il Ruanda, che nega ogni coinvolgimento, beneficia tuttavia delle esportazioni in patria dai territori controllati da M23. Le deboli autorità della RDC non riescono a contrattaccare sul campo e pur di impedire ogni ulteriore sfondamento sono disposte a fare qualunque concessione in tema. Questo è dunque il risultato di accordi presi senza alcuna garanzia né di sicurezza né di attuazione: un insegnamento in prospettiva e uno scenario già in corso d’attuazione anche nel caso ucraino dopo Anchorage. (JC)
(In copertina Pexels)