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Parvuseide/2: il capitalista rosso. L’essenza dell’oggi nei fatti di ieri

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Un secondo passaggio, dopo l’introduzione, del lavoro sull’enigmatico “Parvus”, entrando più nel dettaglio sul suo ruolo di capitalista politico.
Rivoluzione è affari, economia è politica

Per rovesciare più sicuramente il capitalismo, dobbiamo diventare noi stessi dei capitalisti.
Parvus, citato in: Solženicyn, Lenin a Zurigo (1975)

Il già citato soggiorno turco risulta centrale nella vita di Helphand; in un certo senso fa da apripista per lo sviluppo successivo, segna il definitivo passaggio al ruolo di manager-politico, tra consulenze agli imperi e soldi alla Rivoluzione.

Parvus Efendi, alla turca, fallito l’esperimento rivoluzionario del 1905 di cui è stato protagonista, ripara, dopo essere scampato alla Siberia, prima in Germania, poi in una Vienna che già avverte le prime scosse; dunque, approda per diversi anni proprio a Costantinopoli, vi giunge come corrispondente, scrivendone anche per il quotidiano più diffuso nella Russia meridionale Kievskaja Mysl’, poi diventa editorialista del giornale, tutt’oggi attivo, Türk Yurdu di Yusuf Akçura (1876-1935), di sangue tataro perché nato proprio dove è nato “Lenin”, infine consigliere dei Giovani Turchi per l’economia proprio grazie ai suoi articoli illuminanti in tema di economia. Con la solita profondità, “Parvus” ha lasciato scritto:

«Nel 1910 decisi di recarmi a Costantinopoli per conoscere da vicino la rivoluzione turca e studiare le trame diplomatiche precisamente nel punto centrale in cui il nodo di Gordio si intreccia».

In questo lasso di tempo fa ciò che gli riesce meglio: si divide tra editoria, rapporti politici, affari lungo l’asse Costantinopoli-Berlino passando per i Balcani, senza dimenticare Romania e Bulgaria, con un occhio di favore verso la ‘sua’ Odessa, la città cosmopolita, dove con la famiglia era riparato da giovanissimo, cogliendo quella rivoluzione del capitale che proveniva dalla periferia dell’impero e che avrebbe sconquassato l’autocrazia dei Romanov.

La Turchia dei Giovani Turchi, movimento secolare e nazionalista, certamente influenzato dalla Massoneria e in particolar modo dalla Loggia Macedonia Risorta, nato nel centenario della Rivoluzione francese in netta opposizione al reazionario Abdul Hamid II, poi costretto a scendere a patti con loro (le fasi della rivoluzione sono sempre le stesse: crisi delle finanze regie, convocazione degli Stati generali, abdicazione o, addirittura, uccisione del sovrano), si rivela il terreno ideale per “Parvus”.

Certo, nonostante il programma molto ambizioso, i primi anni del governo dei Giovani Turchi sono caratterizzati, dopo la conquista da parte della “Grande proletaria” della Libia, indispensabile per accelerare la crisi dell’impero, dalla secessione di Bosnia-Erzegovina e Bulgaria ma anche da un tentativo di putsch “autoritario” sedato da Mahmud Shevket Pascià, senza dimenticare la complessa situazione finanziaria aggravata dalle “capitolazioni” che il decadente impero – si trattava pur sempre di un grande spazio economico integrato che non esisterà più nel Mediterraneo di Levante – doveva versare alle potenze straniere; “Parvus”, da fine economista, suggerisce la necessità di introdurre dei normali trattati commerciali.

Da quanto ricostruito, si sa che “Parvus”, all’inizio, abita nella città vecchia, affacciata sul Mar di Marmara, tra vecchie catapecchie di legno e pasti di fortuna. È invece a Pera, nocciolo europeo della capitale, che entra in contatto con emissari di prim’ordine del Reich, favorendo anche l’industrializzazione della Turchia grazie alle entrature con il grande capitale tedesco; sulle macerie della Sublime Porta costruirà le fondamenta di un impero commerciale sconfinato, difficile da afferrare nella sua interezza.

«Indicavo ai Giovani Turchi – scrive sempre Parvus Efendi alcuni anni dopo – di non separarsi dalle masse, che soltanto una democrazia che si appoggia sugli interessi del popolo può prestare nuove forze allo stato; passo per passo gli dimostravo come il loro potere perdesse radici e lo stato venisse indebolito… mentre la stampa borghese di tutto il mondo li esaltava come geniali uomini di stato. Nella guerra balcanica tutto crollò. La Turchia era finita». E, con la lucidità che gli appartiene, ricostruisce: «Divenne preda dell’Intesa e seguì il suo destino. Soltanto la guerra mondiale cambiò la situazione».

Dopo una tale ondata di riforme e innovazione, sarà proprio l’influente Parvus Efendi a spingere per l’ingresso in guerra al fianco non dell’Intesa ma degli Imperi Centrali, sancendo la chiusura degli Stretti che ha come conseguenza il lento strangolamento della Russia, favorendo la Rivoluzione. In effetti, se non se ne coglie la valenza geopolitica e l’effetto-strangolamento sull’allora alleato zarista non si comprendono le ragioni dietro la mossa, tutta churchilliana, di intervenire a Gallipoli. Questa operazione merita un approfondimento.

Il 18 marzo 1915, dopo l’efficace bombardamento dei forti, i turchi sono allo stremo ma, a un certo punto, l’ammiraglio John de Robeck incredibilmente, nel momento più propizio, cambia idea e non affonda il colpo. Non si colgono queste mosse se non si coglie il genio luciferino di Churchill, che è pur sempre l’erede di John Churchill duca di Marlborough il quale, alla testa delle truppe inglesi e – ovviamente – olandesi, risulta vincente nella decisiva battaglia di Blenheim sul Danubio contro le truppe francesi di Luigi XIV. «(…) Tra i personaggi comparsi negli ultimi secoli fu – ha scritto Voltaire ne Il secolo di Luigi XIV –, il più fatale alla grandezza della Francia». Il sangue non mente; del resto, Churchill aveva ascendenti anche nelle famiglie Guicciardini e Strozzi, protagoniste della Firenze già capitalista che scopre l’alchimia per creare denaro dal nulla. Come John ha combattuto la Francia prima potenza europea del tempo, così Winston ha combattuto, con due guerre puniche, la Germania e ha lavorato allo smantellamento degli imperi, erigendo un solco invalicabile tra Russia e Germania. Per la gioia di Sua Maestà.

Quanto alla piccola Turchia dei Giovani Turchi, l’industrializzazione avrebbe richiesto tempi lunghi e pace, due condizioni che non si verificarono. Lo smembramento dei quattro grandi imperi porterà le potenze anglosassoni non solo a conquistare dei punti strategici (Weihaiwei, Bahrein, Cipro, etc.) ma a estendere l’influenza a tutta la “grande mezzaluna interna” correttamente identificata da Mackinder, conservando l’egemonia mondiale, fermando l’avanzata dei colossi della Terra, tosando anche le medie potenze (Italia su tutti) su cui vengono scaricati pesanti costi umani e materiali.

Il già accennato post-1905 rappresenta una fase di svolta per la causa rivoluzionaria. La lotta deve fare un salto di qualità e servono ingenti risorse; in parallelo, una nuova élite rivoluzionaria deve soppiantare la vecchia guardia che ha esaurito il suo slancio. “Parvus” addiviene all’idea che la rivoluzione non sarà immediata ma che occorra il parto della guerra. La guerra russo-giapponese, prima della prima rivoluzione, aveva inaugurato, infatti, un ciclo di fuoco e ferro, come aveva intuito Luigi Barzini, l’unico corrispondente europeo a seguire per il Corriere della Sera le vicende belliche, dando resoconti dettagliati di uno scontro già di massa come Mukden; lo stesso Parvus vi aveva visto «l’alba sanguinosa di grandi avvenimenti» (nelle trincee di Porth Arthur ci sono già 600 mila uomini, è già stellungskrieg). Le guerre balcaniche, nel cuore dell’Europa, sono il definitivo campanello d’allarme.

Il momento è gravido, l’opportunità chiara, l’autocrazia dei Romanov non riesce più a frenare una società russa avviata verso la modernità e il capitalismo che Parvus aveva già colto nelle insegne e nelle compagnie di assicurazione del porto di Odessa. «Le navi da Liverpool, Marsiglia, New York, Buenos Aires, Trieste, Amsterdam e Barcellona – ha scritto Zveteremich – davano la riprova che le coordinate dell’avvenire non si intrecciavano partendo dall’arretratezza dello zarismo russo, ma da quello sviluppo che si affacciava alle porte del suo impero». Il partito deve evolvere: serve un “rivoluzionario di tipo nuovo”; non è casuale il richiamo all’esercito di tipo nuovo, di cromwelliana memoria. Una nuova causa richiede sempre un nuovo modo di combattere.

«(…) Quell’estate Hanecki – si legge in Lenin a Zurigo di Solženicyn – aveva guadagnato Lenin a un progetto: creare in Europa una propria impresa commerciale o entrare come soci in un trust già attivo – e trasferire al partito con versamenti mensili garantiti l’ammontare degli utili. (…) L’idea non era di Kuba, proveniva dalla mente mostruosamente geniale di Parvus, Kuba riceveva da Costantinopoli sue lettere. (…) Scrive bene: per rovesciare più sicuramente il capitalismo, dobbiamo diventare noi stessi dei capitalisti». Quello suggerito da “Parvus” si rivela, infatti, un metodo per raccogliere fondi molto meno rischioso delle pur cospicue rapine e più stabile rispetto alle donazioni da parte di “mecenati della Rivoluzione” o alle eredità procacciate con trame sofisticate ma estremamente faticose.

La fertile mente del dr. Helphand alias “Parvus” ha trovato la soluzione per dare gambe a questo gruppo di esuli rivoluzionari scappati in Svizzera e lontani dai teatri operativi: conciliare affari e rivoluzione. Il progetto prenderà corpo durante la guerra che lo stesso “Parvus” aveva previsto, con il solito acume, e in un certo senso anche agevolato, precisamente nel corso del suo soggiorno in Copenaghen, come impresa di import-export, dirottando ingenti somme al partito, mantenendo una spiccata predilezione per i traffici ovviamente da e per la Russia; da buon mercante suggerisce nel suo memorandum pre-rivoluzionario di mettere in circolazione rubli falsi per spezzare la fiducia nello zar. Il capitalismo era già politico.

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