Nella paralisi europea, Erdoğan traccia il suo disegno neo-ottomano.
Il Tazebao – La penisola balcanica, lembo d’Europa in cui le fratture della storia non si sono mai risanate, freme di vitalità. La tensione della regione ha radici millenarie, lo dicono le moschee che si ergono accanto alle chiese, l’eco dei minareti che gareggia con le campane bizantine. L’identità è un campo di battaglia, lo sanno bene i popoli balcanici, ma oggi ci sono protagonisti nuovi in gioco: Russia, Cina, Stati Uniti e – senza sorprendere nessuno – Turchia.
Nella paralisi europea, Erdoğan traccia il suo disegno neo-ottomano. La questione è oltre le classiche categorie di potere, si tratta di un vero e proprio riconoscimento ontologico. L’intera regione balcanica è intrisa di memoria ottomana: una memoria che la Turchia moderna riscopre e risveglia con meticolosa pazienza, nutrendola di cultura, religione ed economia. Le serie televisive turche inondano gli schermi di Sarajevo, Tirana, Pristina. L’intrattenimento è una forma di soft power culturale, per essere espliciti, di propaganda. Intanto l’agenzia Tika, braccio operativo del soft power anatolico, dissemina scuole e centri culturali. Ma è nell’invisibile che si muovono i pezzi più importanti della scacchiera. I droni Bayraktar solcano i cieli albanesi, addestratori turchi plasmano le future élites militari della regione. Ankara sa che il potere si costruisce nell’ombra, lontano dai riflettori europei.
Belgrado intanto osserva sospettosa. La Serbia, cuore dell’identità slavo-ortodossa dei Balcani, non ha dimenticato il 1999. Le proteste studentesche infiammano il paese – non proprio a caso – dopo il crollo della tettoia nella stazione di Novi Sad, ironia tragica del destino: quella stazione doveva essere simbolo della nuova Via della Seta cinese, collegamento ferroviario con Budapest finanziato da Pechino per quasi 4 miliardi di dollari. Le dimissioni di Vučević aprono una fessura in cui potrebbero insinuarsi ambizioni turche. Ma la scacchiera serba è complessa. Mosca, tradizionalmente alleata, è impegnata dalla danza cosacca ucraina. Pechino, invece, si muove con determinazione: il sistema di difesa aerea FK-3, fiore all’occhiello dell’industria militare cinese, è stato recentemente acquistato da Belgrado. L’unico paese europeo esterno alla NATO a possedere tale tecnologia guarda al mondo multipolare di Xi Jinping.
Le trame balcaniche sono un’ammissione di sconfitta dell’Europa morente, l’ennesima. Le sue promesse di integrazione balcanica si sono dissolte nella nebbia delle burocrazie brussellesi. Il Kosovo resta in un limbo diplomatico. La Bosnia-Erzegovina è ostaggio delle sue divisioni etniche, con la Repubblica Srpska che sogna la secessione sotto lo sguardo benevolo di Belgrado. L’Europa non ha scelta se non ritirarsi dalla regione, riconoscendo, come in molti altri ambiti, di aver delegato troppo a partner terzi, di non essere stata amministratrice benevola ed efficace per la regione, gioiranno certamente i popoli balcanici.
Ma oltre la coltre etno-religiosa, la polveriera d’Europa cela la vera posta in gioco: l’energia. I Balcani sono la porta d’ingresso verso l’Europa per i gasdotti provenienti da Russia, Mar Caspio e Asia Centrale. Chi controlla questa regione controlla l’interruttore energetico del continente. La Turchia lo sa bene. Le sue manovre nei Balcani non sono dettate solo da una nostalgia ottomana o dalla solidarietà verso le popolazioni musulmane. È l’energia a guidare la visione di Ankara, in un grande spazio di civiltà che va dal Mediterraneo all’Asia Centrale.
La Turchia di Erdoğan riscopre un destino interrotto, vuole riannodare i fili di una storia che sembrava conclusa con le trame londinesi di primo Novecento. E mentre il “porcospino d’acciaio” europeo decide cosa vuole essere, mentre la Russia guarda altrove, il sogno turco potrebbe trovare nei Balcani il suo primo, concreto compimento.