Il Medio Oriente dopo la caduta di Damasco

La vittoria di Sakarya, con in primo piano il Gazi Mustafa Kemal Ataturk, gruppo plastico preparatorio del maestro Pietro Canonica conservata al museo omonimo a Villa Borghese (l'originale è a Piazza Taksim, Istanbul) - Il Tazebao (2024)
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Dagli ultimi, repentini sviluppi si iniziano a cogliere i futuri assetti della regione. Il peso della Turchia che torna nel Levante da protagonista, dopo oltre 100 anni.

Il Tazebao – Con una rapidità sospetta la Siria si è sfaldata e, dopo Aleppo, Damasco è caduta; le due potenze che avrebbero potuto ergersi ancora a custodi del regime di Assad, Russia e Iran, hanno preferito stare a guardare, Trump ha annunciato di lavarsene le mani, cioè mano libera alla Turchia, che vanta il secondo esercito della Nato e, a differenza degli europei, non è in dismissione.

Il Medio Oriente sta vivendo in questi giorni una ridefinizione sostanziale, le cui ripercussioni iniziano a essere più nitide: il ritorno della Turchia dopo oltre 100 anni come protagonista, una frontiera comune tra Turchia e Iran, il piano per una “Grande Israele” a discapito di Libano e, ora, anche della fu Siria, la Russia che mantiene il suo affaccio sui mari caldi (per quanto?).

È bene ricordare che larga parte degli assetti mediorientali ante caduta di Damasco nascono dagli accordi Sykes-Picot, che hanno costruito delle entità statuali prima non esistenti, tra le quali ciò che fino a poco fa era la Siria, non tenendo conto delle peculiari composizioni etnico-religiose. O, forse, proprio per questo. Per mantenere la regione in una costante instabilità, impedendo la nascita di un attore geo-politico in grado di ordinare lo spazio.

Lo smembramento dell’Impero ottomano, uno degli obiettivi di Londra, la fine dell’unità religiosa della umma garantita dalla Sublime Porta, la conseguente frammentazione di quello che era un mercato comune integrato, fu la condizione necessaria per la costruzione ex novo di singole nazionali autonome, contemporaneamente all’apertura di uno spazio decisivo per il “focolare nazionale ebraico”, che non tarda a sfruttare l’occasione della guerra egemonica in atto per espandersi a discapito dei vicini.

Dopo la guerra, la Turchia rinacque circoscritta alla sola Anatolia, che dovette pure difendere dalle incursioni dei greci di Eleutherios Venizelos, fortemente sostenuto da Lloyd George (il suo ultimo gabinetto cade proprio sul sostegno alla Grecia). Decisive per la sopravvivenza della Turchia la vittoria di Sakarya e la presa di Smirne, decisivi anche gli approvvigionamenti militari dall’Urss, fortemente voluti dall’allora commissario alle nazionalità, Stalin. Proprio la Grecia, unitamente al ritrovato attivismo anglosassone a Creta, costituisce la prima linea di contenimento contro i ritrovati appetiti di Ankara, la quale – è bene ricordarlo – comincia il suo scongelamento a partire dagli anni ’80, con un rapporto privilegiato con l’industria tedesca.

L’assetto disegnato allora è andato avanti, più o meno stabilmente, fino al 2011, quando le primavere arabe hanno aperto il vaso di Pandora, liquidando le classi dirigenti eredi del socialismo arabo che aveva garantito una cornice di normalità. Una nuova guerra per l’egemonia mondiale, come quella che si sta profilando, avrà esiti necessariamente anche su questa fascia intermedia che connette Europa e Asia. Anche il Medio Oriente tenderà, insomma, a riprodurre, dopo una fase magmatica, e a registrare i nuovi equilibri mondiali.

Attualmente, chi ne sta guadagnando di più è appunto Turchia. Pur fiaccata dalla svalutazione della lira, nonostante la non casuale riemersione del terrorismo, la Turchia è l’unica potenza della zona che può estendere la sua influenza, forte di un’industria in crescita e di un’industria bellica già testata in Ucraina, già contro la Russia, e ancor prima nello scontro tra Azerbaijan e Armenia. 

Tornata stabilmente in Libia, dove era stata espulsa dalla “grande proletaria”, tornata nei Balcani, riallacciati i rapporti con i popoli turcofoni, ergendosi a difesa della fede musulmana, Ankara si prepara a tornare a Damasco, oltre 100 anni dopo. Del resto, Londra, since Guerra dei sette anni – la prima combattuta ovunque -, ama le campagne negli scenari secondari, preferendo non sacrificare le sue Giubbe Rosse ma demandando il tutto ad alleati e clienti: a impossessarsi di quei territori allora ottomani ci pensarono i vari Townshend (verso Mosul), Allenby (verso Gerusalemme) e Dunsterville (verso Baku).

Certo, più crescerà, più avanzerà verso la Palestina, più inevitabilmente la Turchia finirà per confliggere con Israele, ma anche con Russia e soprattutto Iran. E se la Russia cambiasse fazione? Un secolo fa era legatissima alla Germania – filotedeschi erano Vitte e lo stesso Rasputin – e finì per alleviare le sofferenze della Francia, soprattutto nei momenti chiave come la Marna e Verdun, finendo poi con quel grande sconvolgimento interno che ha cambiato la storia del mondo. E se l’Iran, dopo i colpi subiti da Hamas ed Hezbollah, pur non debellate, subisse dei contraccolpi interni? Non è la prima volta – vedasi Francia – che una dinastia viene ribaltata per essere riportata in auge come cliente. O come più cliente.

Nuovi attori regionali emergono o riemergono a discapito di quelli più piccoli, come la Siria (o il Libano), nuove combinazioni ed alleanze stanno per nascere. E l’Italia? L’Italia, che vantava prima del 2011 un rapporto privilegiato con la Siria dal punto di vista economico e culturale (è italiano l’archeologo che ha scoperto Ebla), avrebbe tutto l’interesse a essere della partita e non semplice spettatrice. Tuttavia, la potenza italiana crebbe nel primo Dopoguerra – ma non troppo – sulle spoglie del defunto Impero ottomano e nel secondo ebbe dagli angloamericani il lasciapassare per la gestione del Mediterraneo, donde la felice esperienza del socialismo arabo, a detrimento dei “vecchi imperi coloniali”. Oggi, forte della sua storia e della sua visione, è il turno della Turchia, che si riprende ciò che era “suo”.

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