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A colloquio con David Fiorentini, neopresidente dell’UGEI

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David Fiorentini è studente di Medicina all’Humanitas University di Milano e da poco, dopo un lungo impegno, è diventato Presidente dell’UGEI.

La democrazia israeliana: fragilità, forza, prospettive. Il vizio antisemita che non sembra scomparso, anzi. L’impegno per gli altri giovani delle comunità ebraiche. Fresco di elezione a Presidente dell’UGEI (Unione dei Giovani Ebrei d’Italia), David Fiorentini, che avevamo accolto a marzo scorso per un commento sulla tornata elettorale in Israele, ha concesso una dettagliata intervista a Il Tazebao.

Raccontaci perché hai deciso di impegnarti, prima come consigliere e ora come presidente nell’UGEI?

“Sono ormai al quarto anno di esperienza UGEI, e ogni anno ho sempre dei propositi diversi che mi motivano a continuare. Il primo anno, a soli 18 anni, non conoscevo bene l’Unione ancora, però decisi di mettermi in ballo per salvaguardare il futuro delle piccole comunità ebraiche italiane. Venendo da una realtà minuscola come Siena, sentivo che potevo dare un importante contributo, soprattutto cercando di coinvolgere i giovani che come me, vivevano in piccole città e non riuscivano a interfacciarsi con la vita ebraica nazionale.

Da quel momento, è stato un treno di opportunità, iniziative e soddisfazioni, che mi hanno portato a svolgere svariati ruoli all’interno dell’Unione, toccando con mano tutti gli ambiti in cui l’UGEI si impegna, dall’aggregazione giovanile, alla rappresentanza politica, al fundraising, alle campagne sociali, alla difesa di Israele.

Adesso, nonostante la mia giovane età, mi considero un po’ un “veterano”, e mi rendo conto delle grandi potenzialità dell’Unione. Per questo motivo, ho scelto di fare il passo successivo e intraprendere l’avventura da Presidente: per coinvolgere tutti i 4000 giovani ebrei che rappresentiamo, contrastare il crescente antisemitismo e spiegare le ragioni del popolo ebraico e di Israele”.

Cosa pensi di poter apportare all’organizzazione e perché ritieni sia utile una partecipazione dei giovani ebrei?

“Continuando la linea di equilibrio e approfondimento, che ha contraddistinto gli ultimi Consigli UGEI, un fattore che senza dubbio mi caratterizza è l’entusiasmo. Spesso, a causa di profonde diatribe interne su temi politici o religiosi, si sono create delle spaccature all’interno delle comunità ebraiche, che alla lunga hanno portato molte persone ad allontanarsi dalla vita comunitaria. Non tanto per il merito della questione, ma proprio per il clima astioso che si era venuto a creare. Soprattutto a livello giovanile, la maggioranza silenziosa non è interessata, o meglio, non si atteggia in modo così radicale rispetto a tematiche, a volte di marginale rilievo.

La maggior parte preferisce la pacatezza e il rispetto delle opinioni, e soprattutto partecipa alla vita comunitaria per avere un’esperienza collettiva, unificante e condivisa. Secondo me, dunque, la parola d’ordine per avvicinare di nuovo il bacino d’utenza delle comunità ebraiche è entusiasmo, perché è da quello che nasce il coinvolgimento e l’unità. Ristabilire una prospettiva unificante, in cui, nonostante l’eterogeneità dei pensieri, si possa partecipare alle iniziative con il sorriso.

In questo i giovani sono fondamentali, il cambiamento di prospettiva deve partire da noi, che di energia e dinamicità ne abbiamo da vendere. Un’UGEI unita, capillare ed entusiasta del proprio operato è una garanzia certa per il futuro dell’ebraismo italiano”.

In Italia e in Europa c’è un problema di antisemitismo? Che origini ha e perché è ancora così radicato?

“Purtroppo, negli ultimi anni stiamo assistendo a una crescita esponenziale dell’antisemitismo in Europa. In particolare, in Germania, Francia e Regno Unito, sono stati registrati numeri da record, che non si vedevano da decenni.

L’antisemitismo è una costante della storia europea, cambiando più volte le sue vesti è sempre riuscito a insidiarsi nelle menti delle persone in ogni contesto storico.

Partendo dall’antisemitismo di matrice teologica, promosso dalla Chiesa, sia cattolica sia protestante, passando per quello di matrice biologica, tipica del periodo nazista, fino all’antisionismo, l’odio per la nazione ebraica nascosto come avversione politica allo Stato d’Israele.

Il motivo per cui l’antisemitismo è ancora vivo e pulsante al giorno d’oggi è da ricercarsi nella molteplicità di spazi in cui questi è tuttora concesso radicarsi. Principalmente, a mio avviso, sono tre gli ambienti che tengono ancora acceso questo tragico relitto del passato: l’estrema destra, alcune frange della sinistra progressista e il mondo islamico radicale. Il primo, come tutti possono intuire, segue le teorie complottistiche, gli stereotipi e le dicerie di una volta, è una prosecuzione di quell’antisemitismo becero e ignorante: «Gli ebrei controllano le banche e i mass media», «gli ebrei sono tutti ricchi e avidi». Più sottile, invece, è quello proveniente da alcuni ambienti tendenzialmente allineati alla sinistra radicale, i quali, nascondendosi dietro la tutela del popolo palestinese (ovviamente legittima), promuovono infondati boicottaggi di Israele, approvano finanziamenti a organizzazioni terroristiche e mancano costantemente nella condanna delle violenze rivolte allo Stato d’Israele.

L’ultima componente, quella più variabile da Paese a Paese, è l’antisemitismo islamico.

Fondato su un odio di stampo religioso, fomentato spesso e volentieri da imam e sceicchi estremisti, è l’ultima barriera rimasta tra lo status quo e la normalizzazione dei rapporti con numerosi Stati arabi.

L’ebreo è visto come il colonialista miscredente, che minaccia l’Islam e occupa la Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Questo aspetto, riguarda sempre di più anche l’Europa, visti i crescenti moti migratori da questi Paesi verso l’Unione Europea. Non a caso, proprio Francia, Germania e Regno Unito, sono i Paesi con un maggiore Aliyah (migrazione verso Israele). Perché la sensazione che gli ebrei francesi, tedeschi e inglesi provano riguardo il problema dell’antisemitismo è che ormai è diventato totalmente insostenibile, a tal punto da non poter vivere al sicuro i Europa”.

Nel 2021 Israele ha votato. Sono state elezioni di cambiamento a tutti gli effetti? Pensi, inoltre, che il sistema elettorale necessiti di una riforma? E ancora, ritieni sia una scelta corretta includere anche Ra’am nel governo?

“Finalmente, pare che l’ultima tornata elettorale abbia dato una coalizione di Governo stabile. Contro tutte le previsioni, le differenti correnti politiche israeliane, unite dall’odio per l’ex Primo Ministro Netanyahu, hanno trovato un equilibrio su cui lavorare. Non voglio sbilanciarmi in giudizi riguardo l’operato del Governo, tuttavia, già la sola longevità è un risultato non da poco.

Tuttavia, auspico che il motivo per cui l’instabilità si è creata in prima istanza sia risolto al più presto, ovvero il sistema elettorale. Da un lato, riconosco che il sistema proporzionale puro permetta di rappresentare al meglio le numerose “tribù” di Israele. I padri fondatori dello Stato ebraico avevano ben presente che serviva un sistema che potesse dare spazio alla moltitudine di identità politiche, religiose, sioniste, geografiche che in quegli anni stavano continuando a emigrare in Israele. L’idea per cui, “nessuna tribù possa da sola prevaricare tutte le altre tribù” era e rimane sacrosanta. Tuttavia, una potenza mondiale non può avere delle gambe così fragili, trovo assurdo che per il capriccio personale di un piccolo partito l’intera stabilità di un Governo possa vacillare. Per cui, mi auguro che venga fatta al più presto una riforma, che includa magari un piccolo premio di maggioranza alla coalizione vincitrice.

Tra l’altro, l’elemento determinante, e forse il più sconvolgente, della nascita dell’attuale coalizione di Governo, è proprio il partito arabo Ra’am (il primo partito arabo a far parte della maggioranza alla Knesset). In genere, i partiti arabi hanno sempre tenuto una posizione antigovernativa, a prescindere dal colore del Primo Ministro, perché rappresentavano il retaggio antisionista del mondo arabo. Oggi, in un clamoroso cambio di eventi, una porzione dell’elettorato arabo, stufo della Join List, la principale lista araba, ha virato su Ra’am (ha ottenuto 4 seggi, ndr): un piccolo partito, mosso non da alte velleità ideologiche, ma da necessità pratiche per gli arretrati villaggi arabi in Israele. Dai mezzi pubblici, all’urbanistica, alla qualità delle scuole, tutta una serie di urgenze quotidiane che con il tipico atteggiamento scontroso e radicale non sono mai state esaudite. Facilitato dalla distensione generata dagli Accordi di Abramo, Ra’am ha colto l’occasione e ha posto un’importante pietra miliare nella storia dello Stato ebraico”.

Tracciamo un bilancio anche degli Accordi di Abramo, grande successo di Netanyahu, un anno dopo.

“Come accennato, gli Accordi di Abramo hanno avuto un’importanza straordinaria per tutte le dinamiche inerenti lo Stato d’Israele. Innanzitutto, nascono da un grande cambio di prospettiva, per il quale bisogna dare credito a Netanyahu e Trump, ovvero la possibilità di relazionarsi con Israele a prescindere dal conflitto israelo-palestinese.

In precedenza, la condizione sine qua non per trattare con Israele era sempre stata la risoluzione del conflitto. Da alcuni decenni però, molti leader del mondo arabo hanno manifestato un sentimento di insofferenza nei confronti dei capi dell’autorità palestinese, accusati di non sfruttare al meglio gli aiuti internazionali. Per questo, con la fine del conflitto ancora al di là dell’orizzonte, la necessità impellente di nuovi partner commerciali per slegare l’economia dal petrolio in via di esaurimento, e la crescente minaccia iraniana, finalmente si è rotto lo stallo ed è stato possibile siglare accordi di Pace “separati”.

Dopo gli Emirati, anche Bahrein, Sudan e Marocco sono saliti sul treno degli Accordi di Abramo, creando un “boom” che dopo un anno e mezzo continua a produrre una fiumana interminabile di opportunità economiche, sociali, culturali e militari.

Probabilmente con il cambio di amministrazione americana, e l’apertura verso l’Iran, l’onda dell’entusiasmo si è un po’ fermata. Ma non appena anche l’Arabia Saudita normalizzerà i rapporti con Israele, potremo assistere a una svolta epocale in Medio Oriente”.


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