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Sofia Eliodori: “Trump? A metà tra isolazionismo e interventismo”

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Un’analisi sulla politica estera di Trump

Sofia Eliodori: “Elettorato stanco dell’impegno internazionale degli USA. Priorità alla politica interna”.

Il Tazebao, per proseguire nel filone delle riflessioni avviate dopo USA2020, ha contattato Sofia Eliodori, PhD Candidate, specializzata in relazioni internazionali, con tesi di dottorato sulla politica estera Usa.

La politica estera americana è storicamente distinta da elementi di discontinuità e continuità. La forte discontinuità in questo caso è dovuta al personaggio Trump: un passato da imprenditore in cui spiccava la sua aggressività verbale e una presidenza caratterizzata da elementi impulsivi e da un uso massiccio dei mass media, specie dei suoi noti tweet. Quanto pensi che abbia inciso la sua personalità nella conduzione della politica estera?

“Trump è un businessman che ha costruito il suo successo su di una personalità accentratrice e aggressiva, e questo suo modo di essere si è riverberato anche sulla politica estera che è stata definita transattiva, basata sul do ut des. Questo approccio è stato accolto in maniera negativa soprattutto dagli alleati, coi quali c’è bisogno di concertazione per definire strategie e obiettivi comuni. Inoltre, l’imprevedibilità delle sue azioni è stato un ostacolo per le relazioni internazionali, specie quando dagli USA ci si aspettava leadership. La politica estera è molto delicata perché dalla costruzione del rispetto e della fiducia dipende la pace e, sebbene Trump non abbia esposto la sicurezza internazionale a nuove guerre, ha certamente posto sotto stress il sistema attraverso il suo approccio”.

La politica estera americana è un pendolo che oscilla tra due estremi: l’isolazionismo (il cui tipico esempio è la politica voluta dai repubblicani nel primo Dopoguerra) e l’interventismo, inteso come una diplomazia ad alta frequenza tesa ad utilizzare tutti i gli strumenti (politici, economici, militari) per favorire gli USA. Trump in campagna elettorale rivendicò posizioni quasi neo isolazioniste e secondo alcuni questa posizione venne in un primo momento confermata dal fatto, seppur simbolico, che il neo presidente, nei primi 100 giorni alla White House avesse fatto soltanto un viaggio all’estero contro i nove della amministrazione Obama. Tuttavia, nonostante questo incipit, trascorsi quattro anni, in che punto di questo continuum dove collochi la politica estera di Donald?

“L’isolazionismo, come suggerisce il termine stesso, è caratterizzato dal ritiro entro i propri confini. Trump, invece, in questi quattro anni si è fatto portavoce di iniziative di politica internazionale ma preferendo nettamente un approccio unilaterale/bilaterale, come negli Accordi di Abramo. È venuto a mancare è il multilateralismo, col ritiro degli USA da molte istituzioni (ad esempio Unesco, OMS) e trattati internazionali (su tutti il JCPOA per il nucleare in Iran e gli accordi di Parigi per il clima) e, con esso, la leadership statunitense. Per tanto, collocherei questa amministrazione appena terminata a metà di un continuum tra i due estremi descritti, sebbene bisogna ricordare che come prima superpotenza gli Stati Uniti hanno interessi in tutto il mondo, oggi impossibili da controllare senza una massiccia presenza internazionale, viaggi all’estero o no. Trump ha voluto dimostrare non è tanto che gli USA non abbiano bisogno dell’esterno (e lo ha fatto capire senza mezzi termini, come spiegato da Alessandro Sorani), ma che possono fare a meno del consenso degli altri per raggiungere i propri obiettivi. Inoltre, bisogna evitare di confondere isolazionismo con pacifismo poiché, unito alla Dottrina Monroe, è stato foriero di continue aggressioni  nel continente americano”.

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Trump durante la sua prima campagna elettorale sbandierò come punto fermo, con islamofobia a detta di taluni, quello di ridurre drasticamente l’impegno statunitense in Medio Oriente concentrando invece l’attenzione sul Pacifico, e segnatamente sulla Cina. Si potrebbe però smentire questa tesi riportando alla luce i fatti dell’intervento in Siria e dell’omicidio di Soleimani. Rispetto questi due eventi probabilmente sono state due le concause che hanno indotto ad una inversione di marcia: la necessità di affrontare l’ISIS e il pericolo di lasciare il Medio Oriente in mano russa. Quale lettura si può dare a queste operazioni?

“Il Medio Oriente è il teatro più complesso, soprattutto per i sistemi di alleanze e di contrapposizioni ed è stato il focus USA fino alla presidenza Obama, che elaborò la strategia Pivot to Asia. Grazie alla crescente autonomia energetica gli Stati Uniti hanno potuto diminuire il loro impegno nell’area che, comunque, non può essere azzerato per tre motivi principali: le organizzazioni jihadiste costituiscono un pericolo, di cui l’ISIS è solo l’ultimo esempio; gli USA hanno stabilito di evitare che altre potenze regionali si armino con il nucleare; ritengono che per mantenere il proprio predominio debbano evitare l’ascesa di una potenza regionale, qualsiasi essa sia, persino fra gli alleati. Inoltre, la necessità di mantenere una cospicua presenza militare, ad esempio nello Stretto di Hormuz, serve a mantenere un controllo sui mercati energetici anche come arma contro i competitor; infatti, la Cina è il primo importatore di petrolio. Le azioni della presidenza Trump vanno inserite in questo contesto, dove dobbiamo ricordare che la Russia è soltanto uno dei player. L’uccisione di Soleimani risponde a due necessità, invece: limitare l’influenza iraniana sull’Iraq; mettere in crisi il regime di Tehran. In questo caso Trump ha davvero impresso un’impronta personale, optando per una strategia di massima pressione per far crollare il regime dall’interno, e lo ha fatto invertendo completamente la direzione rispetto agli accordi sul nucleare dell’era Obama”.

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Spostiamoci ora sul Pacifico: un’area geopolitica caratterizzata, dal secondo dopoguerra, dall’egemonia incontrastata statunitense, nonostante la sconfitta in Vietnam. Un monopolio preservato sino all’emergere travolgente della potenza economica cinese alla vigilia del XXI secolo. Un palese cambiamento che non provocò particolari reazioni alla Casa Bianca sino all’insediamento di Barack Obama il quale caratterizzò i suoi mandati per l’alta dinamicità nell’emisfero. Nel 2014 Xi Jinping affermò “L’Asia è sufficientemente grande per offrire opportunità sia alla Cina che agli Stati Uniti”: un enunciato che secondo alcuni cronisti indicava che, sia Washington sia Pechino, avevano fatto propria la nozione secondo cui un loro avvicinamento avrebbe prodotto maggiori vantaggi per entrambi più di quanti ne potesse produrre un inasprimento delle potenziali tensioni. Tenendo fermo il dito sul mappamondo, con Trump siamo invece passati ad una politica muscolare e dunque alla guerra commerciale con la Repubblica Popolare Cinese. Come possiamo giudicare la più importante sfida dell’Amministrazione?

“Quando si osservano le relazioni sino-americane bisogna ricordare in primis che i due Paesi sono competitor ma soprattutto partner (il concetto della Chimerica rilanciato dal nostro Tabasso). L’interdipendenza, unita a un netto predominio militare USA, era considerata la base per lo sviluppo pacifico delle relazioni. Entrambi, ne hanno tratto benefici ma, già prima di Trump, sono emersi dei nodi. Pechino continua ad abusare del suo regime economico misto, ha sfruttato l’ingresso negli organismi internazionali per accrescere la propria influenza in Africa, e ha varato la Belt and Road Initiative per acquisire posizioni strategiche. Inoltre, in questi anni di apertura, il regime cinese non ha fatto nessun passo in avanti per garantire maggiori libertà al suo popolo. Trump si è fatto portavoce della richiesta di una politica di contenimento nei confronti della Cina che già circolava in ambienti USA. La questione dello sviluppo di tecnologie come il 5G è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché attraverso il controllo dei dispositivi e delle infrastrutture informatiche si possono controllare gli armamenti nucleari e i dati della popolazione, perciò la Cina può costituire una minaccia alla sicurezza. La guerra commerciale è stata solo un contorno propagandista a questa battaglia, lo dimostrano i numeri della bilancia commerciale USA-Cina che sono sostanzialmente invariati rispetto alla presidenza Obama. Con soli quattro anni di presidenza, è difficile dire se le strategie messe in atto da Trump avranno successo, bisognerà vedere quanto deciderà di discostarsene Biden”.

Una delle più comuni interpretazioni delle elezioni presidenziali USA vuole che sul loro esito le questioni di politica estera abbiano un’influenza meno rilevante rispetto la politica interna. In questo senso le elezioni del 1980, che videro la vittoria di Ronald Reagan, costituirono una delle sparute eccezioni a questa regola. Erano i tempi in cui si ebbe l’impressione che il Presidente Carter avesse incrinato il prestigio USA nel mondo nello schema bipolare e soprattutto perché i cittadini USA erano emotivamente provati dalla crisi diplomatica degli ostaggi in Iran. Il 3 Novembre la regola è stata rispettata?

“Penso che in un mondo globalizzato e profondamente interconnesso da satelliti, cavi marini, supply chains e flussi migratori, la politica estera abbia un influsso perenne sulle politiche interne spesso, però, percepito in maniera indiretta dalle opinioni pubbliche. Certamente è da tempo che l’elettorato statunitense ha dimostrato stanchezza e disinteresse verso gli impegni in questo ambito chiedendo, in maniera trasversale, una maggiore attenzione verso i numerosi temi di politica interna irrisolti. Credo che, in questo senso, anche alle elezioni che hanno portato Joe Biden alla vittoria, la regola sia stata rispettata”.

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