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12 novembre 2003 – Il sacrificio di Nassiriya e il chaos iracheno

Sinjar (Iraq) photo by Levi Clancy on Unsplash
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Ricorre il diciassettesimo anniversario dell’attentato di Nassiriya nel quale persero la vita 19 italiani tra Carabinieri, militari e civili.

Dall’invasione USA del 2003 ad oggi l’Iraq non ha trovato una stabilità di lungo periodo.

Un attacco in sincronia tra terra e aria che spazza via il regime di Saddam, capo del partito Baath. L’invasione inizia ufficialmente tra il 19 e il 20 marzo 2003. Il 1° aprile 2003 cade Baghdad. A maggio la guerra può dirsi conclusa. Il 13 dicembre i soldati USA, insieme ai guerriglieri catturano l’ex dittatore Saddam Hussein. La guerra lampo piega in poco tempo la flebile resistenza irachena ma la scia di sangue e di morte perdurerà a lungo compromettendo la stabilità della regione.

Il rapporto tra Saddam e gli USA è sempre stato ambiguo. Prima così necessario in ottica anti-iraniano da sottacere i tanti crimini del regime, poi sempre più ingombrante e ostile tanto da giustificare l’operazione Desert Storm. Mentre Bush padre, promotore della Prima Guerra del Golfo, preferisce comunque una politica di congelamento dello status quo volto a garantire la stabilità – si punisce l’invasione del Kuwait ma non si sovverte Saddam – Bush figlio (Massimo Rocca entra perfettamente nelle fenditure della democrazia familiare USA) opta per una linea unilaterale.

Una guerra impopolare

Una guerra coltivata da tempo e studiata nei minimi dettagli dagli ambienti neoconservatori ma fortemente osteggiata negli USA, tra voci di protesta, critiche per i costi umani ed economici e richieste sempre più pressanti di chiarimenti sulla presunta e non confermata presenza delle armi di distruzione di massa. “Una guerra sbagliata al momento sbagliato” titola il New York Times il 20 ottobre 2002. I

n uno spot della prima campagna elettorale di Obama – ispirato alla gag dello spot della Budweiser poi ripreso in Scary Movie – si vede un soldato di colore che chiama a casa da una città distrutta che potrebbe essere Baghdad o Bassora nell’apparente stallo della guerra.

La presenza italiana

Sotto l’egida della coalizione capitanata dagli USA, anche l’Italia partecipa in Iraq con l’operazione “Antica Babilonia”. Un’operazione infiocchettata con la bella espressione di “peace keeping”. Una blindatura idealista per fare digerire l’operazione militare all’opinione pubblica.

Le operazioni militari sono terminate da poco con una vittoria sul campo schiacciante ma la situazione irachena è tutt’altro che facile da gestire. La caduta del regime riaccende le ostilità tra sunniti e sciiti e scatena una lunga scia di attentati.

Il giorno 12 novembre un camion imbottito di esplosivo viene fatto esplodere all’ingresso della base di Nassiriya. Il bilancio è pesante: muoiono 19 italiani, 9 iracheni, 60 i feriti. Anche l’Italia paga il suo tributo di sangue.

Il magma iracheno

La guerra condotta dagli USA ha sì eliminato un regime sanguinario ma ha portato in dote una destabilizzazione di lungo periodo. Si è riacuito il conflitto tra sunniti e sciiti. I curdi, sottoposti per anni ad un vero e proprio genocidio, hanno rilanciato le loro pulsioni indipendentiste. Successivamente lo Stato Islamico ha incorporato parti consistenti dello smantellato partito Baath.

Una strada risolutiva fu tentata dal Generale David Petraeus che coinvolse le popolazioni locali nel processo di stabilizzazione. Solo togliendo al nemico i civili gli si sottrae la linfa da cui si alimenta. Al quotidiano La Repubblica King David spiegò nel 2008: “(…) La chiave del nostro progetto è dare loro un ruolo nel successo del nuovo Iraq invece che nel suo fallimento. Posso dire che in certe aree è inconcepibile pensare che i sunniti permetterebbero il ritorno di Al Qaeda. Al Qaeda ha portato morte, distruzione e un’ideologia wahabita che qui la gente non condivide”. Non una soluzione ottimale ma certo la precondizione per un ritiro non in stile fuga da Saigon.

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